Il ritorno

20 Agosto 2014

Negli ultimi undici mesi mi ha accompagnato una strana sensazione, difficile da spiegare. Molti l’hanno definita “mal d’Africa”. Io non so bene se sia il termine appropriato. La mi unica certezza e che contemporaneamente ho provato un senso di vuoto, malinconia e il desiderio di ritornare in un paese che un anno fa mi ha permesso di fare una delle esperienze più belle della mia vita. Proprio questa voglia è stata soddisfatta, quasi tre settimane fa, quando sono ripartita per l’Etiopia. È inevitabile il paragone con l’esperienza fatta l’anno scorso, proprio per questo gli occhi, che sono stati colpiti da nuovi paesaggi e nuovi volti, sono di sicuro meno sognanti e più consapevoli della realtà rispetto allo scorso anno. Il paese che ho ritrovato è in continua evoluzione, anche grazie alla presenza dei cinesi, che si fa sempre più massiccia, tanto che i bambini chiamano tutti i bianchi “cinesi”.Alcune persone che abbiamo incontrato, ci hanno spiegato che questi ultimi riescono a vincere quasi tutti gli appalti, grazie alla presentazione di preventivi molti bassi. Per questo stanno diventando quasi gli esclusivi costruttori di strade e palazzi, per non parlare delle enormi industrie, prevalentemente tessili e dell’acquisto dell’unica compagnia telefonica esistente in Etiopia. Questa situazione, potrebbe essere positiva se non fossero utilizzati, per la maggior  parte dei lavori, materiali scadenti che portano alla vanificazione di quanto fatto, nel giro di pochi anni, come è accaduto ad una delle strade principali di Addis Abeba, costruita solo un paio di anni fa. Mi chiedo quanto un governo tanto attento a preservare il proprio potere, possa permettere una “colonizzazione” così spietata ed “antieconomica”? Secondo il mio parere intervenire sullo sviluppo di un paese attraverso grandi opere è importante purché lo si faccia con strategie che funzionano e soprattutto pensando ed investendo contestualmente anche su altri importanti temi quali ad esempio: il sistema sanitario ed il sistema scolastico per i quali, in Etiopia, è escluso l’accesso alla maggior parte della popolazione e, quelli che vi possono accedere, usufruiscono di servizi fragili ed inadeguati. Nonostante ciò nutro molta speranza perché ho incontrato delle persone Etiopi e non, che si stanno impegnando con tutte le proprie forze per migliorare la vita delle persone che vivono nei villaggi. Parlo di figure come Desta, padre Daniel e suor Delia, che possono essere considerati un esempio, perché credono in coloro che saranno il futuro dell’Etiopia, cioè i bambini. È proprio su questi ultimi che si deve puntare, per far si che il paese possa avere uno sviluppo sano ed allo stesso tempo rispettoso della propria cultura e della propria terra.
Valentina D’Arco

Pubblicato in Etiopia 2014 |

Tornare a Wonji

20 Agosto 2014

Prima della partenza per il mio secondo viaggio in Etiopia e dopo l’esperienza dell’anno scorso mi sono spesso chiesta quale sia stato l’impatto della nostra presenza in questi luoghi. Cosa ha significato per quei bambini passare del tempo con noi?  Cosa avrà pensato la popolazione locale? Cosa abbiamo lasciato noi? Domanda a cui è difficile, se non impossibile, dare una risposta. Il dato certo è che, quando si vive una esperienza del genere, ciò che si riceve è molto di più di quello che si dà. Poi è capitato che per un giorno, una domenica mattina illuminata dal sole, siamo tornati a Wonji, il luogo dove l’anno scorso abbiamo svolto le nostre attività. La prima visita l’abbiamo fatta al sito della Scuola dell’Infanzia alla cui costruzione ha contribuito anche LumbeLumbe. L’anno scorso avevamo visitato un luogo spoglio; un appezzamento di terreno con una baracca poverissima, le fondamenta della scuola appena abbozzate ed un mucchio di mattoni di fango. La curiosità di vedere a che punto fossero i lavori era molta, sapevo che l’edificio della scuola era stato eretto, ma non avrei mai pensato di trovare quello che abbiamo visto. Il cancello si è aperto davanti a noi su un luogo bellissimo; un grande e rigoglioso orto circondato da due bassi edifici dalle pareti gialline: uno destinato alle tre aule della scuola e l’altro alla mensa, alla cucina e all’ufficio. Il tutto completato da un pozzo munito di pompa per attingere l’acqua. I prodotti dell’orto andranno ad integrare i pasti per i bambini che frequenteranno la scuola. Grande è stata la sorpresa di trovare tutto ciò e di sapere che la scuola potrà partire a settembre. Ancora più grande è stata, sapendo che il tutto è dovuto al lavoro ed alla costanza di un solo uomo, Desta, il nostro referente sul luogo e direttore della scuola. A seguire ci siamo diretti nella scuola governativa dove l’anno scorso abbiamo lavorato con i bambini. Li, con nostra grande emozione, alle pareti di un’aula abbiamo trovato i cartelloni in inglese fatti l’anno scorso da noi e sistemati con cura e ordine. Durane questo anno scolastico gli alunni della scuola hanno studiati anche su questi cartelloni. Una parete esterna dell’edificio è stata rivestita di una gigantesco tavola degli elementi chimici, arrecante il logo di LumbeLumbe. Anche li si sono posati gli occhi dei bambini che abbiamo conosciuto  e quelli di tanti altri vi si poseranno. Il direttore della scuola, che lo scorso anno non avevamo avuto il modo di conoscere, ci ha accolto con calore ringraziandoci per il lavoro fatto. Il terzo appuntamento della  mattinata è stato con alcune donne che saranno destinatarie, qualora approvato, del progetto di microcredito. Non è stato facile spiegare loro i meccanismi per la presentazione di un progetto e perché questo non è stato ancora finanziato. Eppure dai loro sguardi e dalle loro parole abbiamo capito che per loro è stato importante il nostro ritorno, anche solo per spiegare. Quella del ritorno a Wonji è stata una mattinata intensa, ricca di pensieri, ricordi ed emozioni. Non ho trovato risposte alle domande che mi sono fatta per questi mesi, ma ho visto. Ho visto quanti può fare una piccola raccolta fondi nelle mani di un uomo operoso, ho visto la cura con cui è stato conservato il materiale lasciato e, infine, ho visto la gratitudine negli occhi di chi ha apprezzato il nostro ritorno. Piccoli segni ma concreti.
Tiziana Manuale

Pubblicato in Etiopia 2014 |

Scrivere. Scrivere cosa?

20 Agosto 2014

Scrivere. Scrivere cosa cosa? Potrei scrivere della rossa terra che colora i campi Etiopi? O della lussureggiante vegetazione che incornicia i panorami Africani? Dei profumi? Degli odori? Degli sguardi che si incrociano viaggiando su di un bianco e infangato fuoristrada?
Si potrei, non sono mai troppo  inflazionate queste sensazioni.
Ma ora no, voglio scrivere della storia di un fiore.
C’era una volta, in una scuola del Villaggio di Goru, un fiore…un semplicissimo fiore.
Questo era avvolto da un alone di magia,si perché non nasceva dalla terra ma da una penna che con fare indeciso si mosse a mò di cerchio creando una corolla. Con lo sguardo sbirciava suggerimenti per dipingere un petalo e poi un altro, un altro e un altro ancora.
Questo fiore prese vita, diventò di mille colori!!
Poi ne diventarono due.
Uno di questi decise di allacciarsi intorno al collo di un bambino e di andare insieme a lui nella sua casa a portare colore, a diffondere la fragranza della vivacità e dell’impegno,a inebriare le pareti di quelle essenze chiamate attenzione, tentativi, apprendimento, prove ed errore.
L’altro fiore invece andò a decorare pareti spoglie e prive di una storia, di un percorso, di un identità di gruppo.
L’indomani. Sfumature grige nel cielo dell’Oromia, nuvole pronte a lasciar cadere gocce di pioggia, sole malinconicamente pallido.
Di nuovo magia.
Di nuovo un fiore.
Questa volta portava con sé il profumo dell’autonomia e dell’indipendenza, dell’iniziativa  e dell’audacia, del provare per poi riuscire, della stima che dolcemente si insinua e prende vita in un bambino di forse 7 anni.
Yabsirat, dopo essersi impossessato del mio gessetto color indaco si sdraia sopra i banchi e con fare sorridente e divertito disegna un enorme, bellissimo, splendido fiore.
Sara Giacomini

Pubblicato in Etiopia 2014 |

Il primo pensiero

20 Agosto 2014

Il primo pensiero che mi è barcamenato in testa quando ho iniziato il viaggio in macchina per venire qui da Addis Abeba è stato: “Se je togli lamiere ed eucalipto sono proprio finiti…”, poi uscita dalla Capitale, attraversando paesaggi e villaggi, mi sentivo spenta, vuota, nulla attirava particolarmente la mia attenzione, nulla suscitava in me qualche emozione. Continuavo solo a fare sciocchi paragoni, ad esempio quando le mie compagne di viaggio sono rimaste sbigottite dalle strade allagate, io ho pensato al Raccordo chiuso per allagamento solo poco tempo prima; insomma guardavo, ma non osservavo come se non volessi andare oltre. E poi è arrivato, proprio nel momento in cui siamo giunte a quella che sarebbe stata la nostra casa per due settimane, costrette a fare un tratto a piedi per via del fango, appena scese dal pulmino ci ha accolte una piccola folla di bambini con quelli sguardi un po’ spauriti ed un po’ incuriositi nel vedere sei donne completamente diverse da loro ed è stato lì che qualcosa si è acceso, che è tornato il pieno di dentro di me, non so come spiegare, un po’ come quando si sentono le farfalle nella pancia quando ti piace qualcuno, ma più intenso.
Dopo una fase di sistemazioni, organizzazioni, pulizie, ecc. per capire cosa ci sarebbe aspettato, siamo andate a visitare la missione di Getche e durante questo tragitto è iniziata la “mia” Africa: i profumi, i colori vivi di questa terra, i vasti paesaggi con un verde così intenso da perdersi per ore, la forza del fiume, la curiosità dei babbuini, la bellezza elegante delle donne, la festa sacra della loro messa. E poi, come in ogni realtà, c’è l’altra faccia della medaglia: le capanne o le baracche che popolano le strade, la sporcizia, i bambini che lavorano, è un paese pieno di contraddizioni, ma in fondo quale non ne ha?
Mi ha sorpreso la cura con cui proteggono le giovani piante creando attorno a loro una sorta di struttura in paglia e poi abbandonano gli animali in strada con rischio di incidente ogni due metri, ma è così, non capiamo e dove sta scritto che noi dobbiamo capire, noi dobbiamo conoscere.
Ed eccoci pronte per il nostro primo giorno di “lavoro”: la mattina a scuola con i bambini ed il pomeriggio a zappare terra e chi mi conosce sa bene che non sono proprio portata per entrambe le attività, ma è andata contro ogni previsione e con tutto il mio stupore. Mi sono ritrovata sommersa, in tutti i sensi, da questi bambini gioiosi di colorare, giocare, cantare, curiosi di vedere occhi di un colore diverso, di prendere mani di un colore diverso, felici di passare del tempo ad imparare.
Ma ciò che lasciano a te è indescrivibile, così di andare oltre ai vestiti, se così si possono chiamare, sporchi, ai loro piedi scalzi in mezzo al fango, alle loro manine ruvide della terra dura e quel sorriso che ti regalano ti invade e ti rimane dentro perchè sono sempre solo bambini.
L’orto è stato un momento esilarante, ma che soddisfazione è stata vedere il lavoro fatto in sole poche ore e l’importanza che questo può avere.
Adesso è passata una settimana, ho provato mille emozioni contrastanti, tutte degne di essere vissute. Prima di partire mi è stato detto che quest’esperienza avrebbe tirato fuori i miei limiti, io sto scoprendo le mie possibilità, i miei difetti li conoscevo già, ma sto imparando a gestirli!
Questa è l’Africa dal mio punto di vista: stancante, intensa, con i suoi ritmi, prifumi, colori e contraddizioni, ma pronta a darti molto di più di quanto potessi immaginare tanto da commuoverti quando senti la voce delle persone care delle quali avevi dato per scontato il loro amore, perchè è questo che fa, ti fa vedere la vera realtà.
Isabella Galloni

Pubblicato in Etiopia 2014 |

Just a few snippets from my diary

20 Agosto 2014

Friday 25th July
A rather long trip in Paolo’s van to Goru passing through lovely countryside. Unfortunately the
weather was damp and rainy and there was mud almost everywhere. Finally we arrived at the compound, but we had to get out of the van and walk to the lodgings as the track was so full of mud that we almost got stuck. We were followed by about thirty children, adorable dirty little urchins!
In front of our rooms there was a large muddy lake full of croaking frogs and God knows what else.
We were six in a room and started preparing our beds, first trying to attatch the mosquito nets down from the ceiling, then unfolding our sleeping bags on the beds right under the nets. They all looked like butterfly nets, and we looked like sleeping agels caught up in them!
Friday 1st August
Rather cloudy damp day. Children arrive on  the compound really early and play in the mud waiting for us to start the lessons. It’s incredible, they have their best clothes on, but they are torn, muddy, worn out, stained, full of holes, wet, stinky, too big or too small for them. Many of the little ones have dribbling noses, filthy nails and sticky rough dirty hands. It sounds impossible but it is all true.
The one thing that amazes me, is the hair style of the girls, the way they plait their hair in hundreds of different ways. Incredible geometric designes in plaits on their scalps and then their hair hanging down in little pig tails clustered toghether or sticking out in all directions. The children’s hair styles are  extremely creative and sometimes decorated with colourful ribbons scattered all over their heads.
It must be difficult with very crispy hair to create these  works of art and apparently it takes hours and a lot of patience to elaborate them. Mothers seem to care for the children’s head, but not for the rest of their bodies.
So many of these little children need so much love and affection, you can see it by the way they want to touch you, hold your hand, pull up close to your legs and hug you. Unfortunately I could not hug them all at once as we had 120 little children in all.
Carroll Mortera
 

 

Pubblicato in Etiopia 2014 |

…il dono della diversità

12 Settembre 2013

Dopo tanti viaggi in Africa, io ancora non riesco a capire cosa mi lega, così profondamente, a questo continente. Sono appena tornata dall’Etiopia, da ventitre giorni immersi tra campagna e città, da un viaggio di turismo responsabile, quindi a diretto contatto con le più vere realtà.
Getche, nella regione del Guraghe, a Sud-Ovest di Addis Abeba, è stata l’utero che mi ha accolta inizialmente, con la sua vita rurale, gli spazi sconfinati, le capanne di legna e fango e paglia, il rosso della terra, e quell’unica strada asfaltata. Getche, con gli occhi grandi e brillanti dei suoi bambini che osservano “il diverso” con genuina meraviglia e curiosità. Getche risucchia il cuore in un vortice di emozioni quando presti aiuto nella clinica della missione, e scopri che quei bambini, quelle persone, mangiano solo il pane ricavato dal falso banano nonostante la fertilità della loro terra, e masticano abitualmente il khat con i pochi denti sopravvissuti alla carenza di calcio, vitamine e pulizia. Getche mi ha messa davanti alla scomoda verità che si muore ancora di parto, con facile normalità, così come di malnutrizione o “malasanità”, se non si è educati a lavarsi e a pulirsi da feci e urina. Ma ho anche scoperto che, proprio dove sembra regnare la morte, può emergere con caparbietà la forza della vita, ostinata nell’impegno quotidiano di molte persone, in una medicazione, in un sorriso, nei piccoli grandi gesti di solidarietà.
Addis Abeba invece è una città sovraffollata e molto disordinata, un crogiolo di diversità credo risultante da una rapida e non controllata urbanizzazione. E mentre la popolazione continua ad aumentare tra rifiuti, scarsità di acqua e di cibo, non interazione sociale e crescente disparità, Paolo Caneva, io e altri volontari abbiamo lavorato con alcuni dei suoi adolescenti su alcuni temi dei quali abbiamo percepito la necessità: conoscenza di sé e educazione all’ambiente. La relazione con i ragazzi è sempre una grande esperienza, soprattutto quando le distanze sembrano molto grandi (nel gruppo vi erano maschi e femmine, cattolici, ortodossi e musulmani, chi parlava solo amarico e chi conosceva qualche parola di inglese), e piano piano ti accorgi che è nello stare insieme umilmente, in reciprocità, che può avvenire la magia. Che “Il Sogno di una Cosa” prende forma, di una società più giusta e più sana, senza muri di separazione, in cui ogni singola diversità si nutre della gioia di esprimere se stessa, di donarsi all’altro e di accogliere i doni dell’altruità.
Forse è proprio questo che mi lega all’Africa: il bisogno di mantenere viva la speranza!
Elisa Barni

Pubblicato in Etiopia 2013 |

Etiopia 2013

30 Agosto 2013

Quando Alberto mi ha comunicato della sua impossibilità a partecipare, come capogruppo, all’esperienza in Etiopia ho provato, per un attimo, un po’ di disappunto per impegni personali e di LumbeLumbe già presi. Rapidamente, però, sono stato invaso da un senso di libertà e appagamento. Prevedere il mio viaggio con il gruppo sarebbe stata una fuga dal lavoro. La necessità di farlo ha però evitato, ad uno stacanovista incallito come me, quel senso di colpa che avrei inevitabilmente sentito se non ci fosse stata questa necessità dovuta anche al fatto che non ho trovato altre persone disponibili e con un minimo di esperienza. Oggi qui in Etiopia con Ambra, Cristina, Francesca, Luigi, Tiziana, Valentina e Paolo, il nostro riferimento locale, mi sento come alla sorgente. Rivivere, attraverso i loro cuori e le loro emozioni, ciò che ho vissuto la mia prima volta, quattordici anni fa, mi fa stare molto bene. All’inizio erano un po’ impacciati, curiosi e anche un po’ intimoriti davanti ai bambini che abbiamo incontrato. Poi rapidamente hanno preso possesso della loro scelta mettendosi in gioco e immergendosi totalmente in questo viaggio verso l’altro.
Ascoltarli, durante la cena, sulle loro proposte per il giorno dopo. Vivere il loro entusiasmo è stato rigenerante e mi ha fatto riconsiderare il modo di fare, e di agire dei giovani occidentali, più inclini all’ozio mentale ed alla ricerca di una via di fuga dal loro mondo confuso, che a mettersi in gioco per impadronirsi di uno stile di vita orientato al rispetto dell’altro.
L’immersione nella realtà africana è stata graduale. Siamo passati dall’albergo di lusso di Addis Abeba (la casa provinciale delle suore figlie di Sant’Anna) al convento dei Frati cappuccini di Nazareth per poi finire in una casa di Wonij, dove le 5 ragazze si sono dovute organizzare in una sola “camera” con letti, materassi sacchi a pelo e valige. Il loro vero problema però non è stato la mancanza di spazio ma i coinquilini: scarafaggi, di ogni tipo, che giorno e notte, con operosità ed alacrità, hanno svolto le loro faccende. In questo impegno instancabile hanno avuto l’ardire di passeggiare sulle valige, zaini, e persino sui pigiami e sulle zanzariere, poste come baldacchini sopra i cinque letti. La cucina poi era il loro il luogo preferito soprattutto durante la confezione dei pasti. Chissà se sono proteici!!!
A me e Luigi sono state riservate delle dependance con un tetto in eternit che le ha fatte diventare simili a delle serre. In compenso abbiamo avuto un bagno alla turca con un tubo di plastica dal quale sgorgava acqua calda, che arriva così dalla sorgente. La sporcizia del bagno non era particolarmente disagevole, se non fosse stata integrata da un odore poco sopportabile. Paolo ha preferito montarsi una tenda nel giardino. Il tutto corroborato da qualche piccolo serpentello del quale non ne abbiamo fatto parola alle ragazze per evitare il panico.
La notte invece da poesia… un vociare di rane, uccelli notturni di ogni tipo, ululati di iene e l’eco dell’abbaiare dei cani pronti ad intervenire se le iene si fossero avvicinate troppo alle case.
Una natura poco contaminata che ci ha permesso di riscoprire le stelle e la via lattea, ormai invisibili, dimenticate e coperte dalle luci artificiali della nostra Italia.
Tutto questo è diventato marginale, e anche bello, dopo i primi incontri con i bambini della scuola. Sono stati loro ad accentrare gli interessi ed il lavoro. Nonostante l’impegno che hanno richiesto, per la vivacità persistente nel corso delle lezioni di inglese somministrate dai ragazzi LumbeLumbe, i loro sguardi sono penetrati nel cuore di ognuno e non ne usciranno più.
Uno dei momenti più belli è stato rotolarsi con loro nell’erba durante l’intervallo e sentire la loro gioia quando, con slancio irresistibile, abbracciavano e baciavano le teachers alla fine della lezione prima di allontanarsi dal comprensorio della scuola per aspettarci nella strada di terra sconnessa e correre dietro il fuoristrada con cui tornavamo nei nostri “alloggi” per consumare un rapido pasto.
Il rischio di investirli, ma anche il senso di colpa di non essere a contatto con la terra insieme a loro magari a piedi nudi o con un paio di ciabatte di plastica, impegnava la nostra attenzione ed i nostri pensieri. Un piccolo cenno alle loro “aule” fatiscenti e dignitose, finestre sconnesse dalle quali la vista si perde in una natura incantevole, banchi traballanti dove si siedono bambini che ghermiscono le viscere per il modo con cui ti guardano. Mura con un intonaco approssimativo, verde fino a poco più di un metro e poi bianche, di un bianco che il tempo e la polvere hanno inesorabilmente e prematuramente invecchiato.
Nei pomeriggi gli incontri con 25 donne unite, in un’associazione di fatto, per organizzarsi in attività commerciali nel mercato locale.
Pomeriggi di gioia e condivisione. All’aperto sotto la tettoia della scuola sedute sui banchi, dove al mattino siedono i loro figli. Per l’occasione i banchi sono stati portati fuori dalle aule. Ci guardano incuriosite: “Cosa vorranno questi bianchi?”, “che sonno venuti a fare qui?”, sembra si chiedano perplesse mentre le ragazze LumbeLumbe organizzano il materiale per iniziare le attività. Le sere precedenti, e nell’incontro con le donne di Nazareth, si sono preparate molto per proporre dei lavoretti semplici, fatti con le cose che Grazia, in Italia, ci ha preparato con molta cura. Stoffe di vario tipo, filo, aghi, forbici integrati da perline portate dalle ragazze marchigiane ed altri accessori per il cucito raccolti dalle ragazze romane.
Dopo le prime titubanze si scatena la gioia, chi vuole fare borse, chi braccialetti, chi cinte realizzate con le bottiglie di plastica. Le africane si consultano e dopo un moderato e non breve confronto, optano per le borse con la tecnica del patchwork. Siamo certi che le borse alla fine siano state uno strumento per stare insieme, per cercare di comunicare e di incontrarsi. Non è mancata la passerella con la sfilata delle borse che ognuna, in poco più di un’ora, aveva realizzato. Tra risate e applausi si è concluso questo momento di condivisione e di autentica comunione. Anche le riprese con la telecamera di Ambra sono state molto gradite.
Vedere un villaggio in africa è come una rivelazione: nonostante i documentari che ci vengono proposti, guardarli da dentro è tutta un’altra cosa. Quello dove siamo stati noi, dopo una camminata impervia di due ore, ha stimolato molte domande ed altrettante riflessioni. Una coppia di anziani, con rughe che sembravano scolpite da Michelangelo, “senza pensione” che debbono accontentarsi di ciò che gli viene dato da mangiare dai giovani o dei pochi birr (moneta locale) donati da qualche parente che va a fargli visitai. Una giovane donna, vedova con cinque figli, particolarmente bella. Il suo abbigliamento, di un vestito nero di stoffa molto leggera, lungo fino a terra e visibilmente sdrucito, unto e impolverato. Lo portava con tale grazia da farlo sembrare un capo delle migliori sfilate di moda. Siamo entrati tutti nella sua capanna, ci ha servito, bolliti in una ciotola di legno, fagioli, mais e lenticchie. Ho mangiato con gusto, anche se con qualche rischio.

Parleremo ancora di questa esperienza mancano tante cose da raccontare. Un’esperienza che ha fatto diventare gradevoli anche gli scarafaggi, scomparsi dalla nostra mente e dal nostro cuore, conquistati dallo sguardo dei bambini e dalla gioia delle donne.
I. Governatori

Pubblicato in Etiopia 2013 |

…. sposta un sassolino

9 Agosto 2013

S. Ambrogio insegna che noi uomini abbiamo il privilegio di poter esprimere con la bocca i sentimenti del cuore e i segreti pensieri del nostro spirito. Ieri abbiamo salutato i bimbi di Nazaret. Li ho guardati tutti negli occhi, ad uno ad uno e sono riuscita a dire loro solo “GRAZIE” (AMASEGHENALLO in amarico). Il nostro privilegio è essere qui a prendere tutto ciò che questo Paese può trasmettere ed è talmente tanto che quasi ci sentiamo in dovere di scusarci perché sentiamo che li stiamo ricambiando con troppo poco. Ma ho capito che se il nostro obiettivo è voler spostare la montagna resteremo sempre immobili, aspettando il momento giusto, aspettando di aver tutto il necessario per partire. Ma non esiste il momento perfetto, basta così poco…
E allora il nostro obiettivo deve essere spostare anche solo un sassolino perché è il piccolo gesto che può fare la differenza.
Non c’è libro, corso, scuola o racconto di terzi che ti può preparare ad un’esperienza come questa. Non sarai mai pronto a dire “smile, always” ad un bimbo che piange perché sa che da domani non sarai più la sua teacher e ti rendi conto che mentre glielo dici scorrono le lacrime anche sul tuo viso. Non saremo mai pronti abbastanza, ma questo non può essere un ostacolo, non può frenarci e non può essere motivo per rimandare. Basta ascoltare la propria coscienza.
Può essere utile, però, far parte di un bel gruppo che porti avanti, compatto, il progetto. Un team affiatato che discute e si confronta, a volte anche duramente, che però è consapevole che con la passione per ciò in cui crede si fortifica e…sposta il sassolino.
Francesca magna

 

Pubblicato in Etiopia 2013 |

Spritz, teff …. e confort

8 Agosto 2013

Africa, terra dai frutti invitanti! Ce ne sono per tutti i gusti: dall’ananas al mango, dalla papaya alla banana, all’avocado servito con zucchero o sale, allo “spritz”- una fantasia di colori e sapori, armoniosamente disposti nel frullato più chic che abbia mai assaggiato! Etiopia, terra della “‘njera”, preparata con farina di “teff” e acqua, così radicata nell’alimentazione del paese da essere sostituita nel “Padre Nostro” al posto del “pane quotidiano”. C’è però qualcosa che incuriosisce più di tutto: il caffè, preparato e decantato con cura per quasi un’ora durante una vera e propria cerimonia, nella quale il profumo dell’incenso e della tostatura si mescolano sapientemente, creando una dimensione fiabesca. Si perde la cognizione del tempo qui e si rimane stupiti dalla dedizione con la quale la donna prepara il prelibato protagonista. E’ tutto complice a invitarti a far tesoro dello stare insieme, di scoprirsi e riscoprirsi, di prendersi del tempo …. Ci sono tanti momenti come questo in Etiopia, in cui ti lasci assorbire da ciò che ti circonda e ti ricordi della bellezza delle pianure verdeggianti, della meraviglia del cielo per soffermarti poi sul volo di una farfalla e ascoltare il vento …. Qui riacquisisci quel legame con la natura che ti fa sentire parte di un Unico Grande Meraviglioso Progetto. Ho dimenticato da quanto tempo, presa dal senso dell’efficacia delle mie giornate, non mi soffermavo a stare in ascolto … a udire con gli occhi, a vedere con il cuore. Un incontro particolarmente emozionante è stato con le donne del villaggio. La loro naturalezza ed eleganza irradia dalla semplicità con la quale senza i nostri vestiti fashion, riescono ad essere femminili, ad essere Donne! I loro sorrisi, il loro saluto, il modo in cui si sistemano la stola, i visi senza trucco che lasciano trasparire la voglia di mettersi in gioco, di divertirsi, quando alla fine di un pomeriggio di “creazioni borse” accettano di sfilare per noi come delle professioniste. Ci si accontenta di poco a Shoa, come a Wonji e a Nazareth perché quel poco ha la forza dell’autenticità che riempie il tutto. Ci si diverte poco anche a scuola, per chi riesce ad andarci, quando non è troppo lontana, quando non si porta della legna o dell’acqua in bidoni che pesano almeno 10 litri, quando non si va a pascolo con gli animali …. Se hai la fortuna di incontrare questi bimbi a scuola, di essere chiamata la loro “teacher”, di farti delicatamente accarezzare i capelli, di farti provocare dal disegno regalato, fatto apposta per te, hai ricevuto uno dei più grandi doni che un’esperienza come questa ti può dare!. La loro discrezione e la determinazione con la quale durante la pausa ti fanno scivolare la manina nella tua per “assicurarsi” un posto accanto a te, ti fa sorridere e riflettere a quant’è importante la tua presenza; ti senti pieno, ti senti vivo! C’è sempre qualcosa che ti sorprende in Etiopia, come mi è successo al lago Zway, quando siamo andati a visitare la chiesa ortodossa ed ho avuto la sensazione che ad accogliermi c’era San Giorgio con i leoni; oppure durante la celebrazione della messa cattolica domenicale in lingua locale, quando mi sono sentita improvvisamente a casa! E’ una forte emozione riconoscere melodie e gesti cerimoniosi simili alla messa ortodossa durante questa messa cattolica, celebrata con il rito orientale!
Per chi vuole fare un’esperienza come questa, si prepari a diventare il vero destinatario dell’aiuto che pensava di dare. Stare insieme a questa gente, ridà il giusto valore al presente, l’unica dimensione che fa la Differenza. La ricerca del “confort” più “confort” diventa goffa davanti ai bisogni che qui ci colpiscono con forza e le smorfie da occidentali, impreparati alla vita, non reggono più; ed è così che ti accorgi che il nostro mondo ovattato non solo ha messo in stand-by una parte del nostro cervello, ma soprattutto la nostra anima e il cuore!
Grazie Etiopia, terra di aromi, colori, suoni e aspirazioni! Grazie Dio!
Cristina Lungu
 

Pubblicato in Etiopia 2013 |

“Walking in the african darkness”

1 Agosto 2013

20130730_pubblicate_04_ridimensionare1.JPG
In Etiopia accade che, dopo una cena consumata all’aperto davanti ad un falò, vai a fare una passeggiata con persone del posto per avvistare le iene. Ti avvii piena di curiosità e di trepidazione e ti ritrovi immersa nel buio della notte africana, rotto solo dalle flebili luci delle pile. Le forme dei grandi alberi si stagliano nel cielo pieno zeppo di stelle e ti accorgi che la Via Lattea esiste ancora. Poi nell’oscurità scorgi in lontananza fessure fluorescenti e sono gli occhi delle iene che, noncuranti della presenza umana, filano via mostrando le loro sagome sfuggenti. Accade che, parlando con gli accompagnatori, scopri che sono degli insegnanti che guadagnano l’equivalente di circa 20 – 30 euro al mese anche dopo ventuno anni di servizio. Raccontano che il loro lavoro non è molto rispettato e quando c’è un problema con un alunno, la famiglia tende a dare la colpa all’insegnante e a difendere il proprio figlio. Un po’ fa sorridere, perché non c’è molta differenza con l’Italia. Eppure le differenze ci sono, e molte, ma in quel buio e in quel luogo, ciò che ti sovrasta è la bellezza.
C’è bellezza in Africa, non solo naturale, ma in un modo che non t’aspetti. È la bellezza del Bosco Children Centre, un centro salesiano che raccoglie bambini di strada ad Addis Abeba per avviarli all’istruzione e ad un mestiere. Dice il suo fondatore, don Dino, che è il progetto più bello del mondo e ci credi perché è un luogo di armonia ai limiti di strade intricate e costeggiate da baracche. È la bellezza dei bambini che si presentano al primo incontro con noi indossando la giacchetta della festa o che inseguono la nostra macchina per salutarci con allegria e affetto. È quella di un’antica chiesa ortodossa circondata da un piccolo villaggio a cui sembra donare protezione e tranquillità. È la bellezza dell’accoglienza calorosa di un pranzo domenicale preparato con orgoglio o di una festa organizzata per noi, dove giovani ragazzi ballano danze tipiche nei loro abiti tradizionali. È il fascino di una donna giovane e bella che vive in una capanna, ma che ha il portamento di una regina.
L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma non sarebbe l’Africa se non si andasse a visitare il sito di una scuola in costruzione e non si incontrasse una piccola bambina visibilmente sofferente che muove i passi incerti a pieni nudi nel fango. E non c’è né bellezza né giustizia.
30 luglio 2013 – Tiziana Manuale

Pubblicato in Etiopia 2013 |