…il dono della diversità

Dopo tanti viaggi in Africa, io ancora non riesco a capire cosa mi lega, così profondamente, a questo continente. Sono appena tornata dall’Etiopia, da ventitre giorni immersi tra campagna e città, da un viaggio di turismo responsabile, quindi a diretto contatto con le più vere realtà.
Getche, nella regione del Guraghe, a Sud-Ovest di Addis Abeba, è stata l’utero che mi ha accolta inizialmente, con la sua vita rurale, gli spazi sconfinati, le capanne di legna e fango e paglia, il rosso della terra, e quell’unica strada asfaltata. Getche, con gli occhi grandi e brillanti dei suoi bambini che osservano “il diverso” con genuina meraviglia e curiosità. Getche risucchia il cuore in un vortice di emozioni quando presti aiuto nella clinica della missione, e scopri che quei bambini, quelle persone, mangiano solo il pane ricavato dal falso banano nonostante la fertilità della loro terra, e masticano abitualmente il khat con i pochi denti sopravvissuti alla carenza di calcio, vitamine e pulizia. Getche mi ha messa davanti alla scomoda verità che si muore ancora di parto, con facile normalità, così come di malnutrizione o “malasanità”, se non si è educati a lavarsi e a pulirsi da feci e urina. Ma ho anche scoperto che, proprio dove sembra regnare la morte, può emergere con caparbietà la forza della vita, ostinata nell’impegno quotidiano di molte persone, in una medicazione, in un sorriso, nei piccoli grandi gesti di solidarietà.
Addis Abeba invece è una città sovraffollata e molto disordinata, un crogiolo di diversità credo risultante da una rapida e non controllata urbanizzazione. E mentre la popolazione continua ad aumentare tra rifiuti, scarsità di acqua e di cibo, non interazione sociale e crescente disparità, Paolo Caneva, io e altri volontari abbiamo lavorato con alcuni dei suoi adolescenti su alcuni temi dei quali abbiamo percepito la necessità: conoscenza di sé e educazione all’ambiente. La relazione con i ragazzi è sempre una grande esperienza, soprattutto quando le distanze sembrano molto grandi (nel gruppo vi erano maschi e femmine, cattolici, ortodossi e musulmani, chi parlava solo amarico e chi conosceva qualche parola di inglese), e piano piano ti accorgi che è nello stare insieme umilmente, in reciprocità, che può avvenire la magia. Che “Il Sogno di una Cosa” prende forma, di una società più giusta e più sana, senza muri di separazione, in cui ogni singola diversità si nutre della gioia di esprimere se stessa, di donarsi all’altro e di accogliere i doni dell’altruità.
Forse è proprio questo che mi lega all’Africa: il bisogno di mantenere viva la speranza!
Elisa Barni