Provincia di Macerata - 2009

la lunga fila dei respinti.

Venerdì 11 Settembre 2009

Questi i risultati dei test di ammissione alle classi terza e quarta della scuola Lasalle: 99 domande e 3 ammessi, 115 richieste, 5 selezionati.

Zwavi: un piccolo cartello comunica che il giorno dopo verranno aperte le iscrizione alla prima classe dell’asilo. L’orario segnato è alle 9, ma alle 9 e 15 si chiudono i cancelli.

Forse verrebbe da pensare che le scuole dei missionari, fratelli cristiani a Meki e suore salesiane a Zwai, abbiano aule piccole, ma non è così: la scuola di Meki ha in totale, divisi nelle 12 classi del sistema etiopico, 1580 studenti, la classe d’asilo di Zwai ha 60-70 bambini.

Alle 9 di sera, davanti all’asilo c’era chi prendeva posto per essere il primo della fila dopo una notte passata in coda; 500 le richieste quando hanno chiuso i cancelli.

Studiare in una scuola come la Lasalle di Meki significa che, dopo duri sacrifici (si studia dalle 8 alle 5 del pomeriggio, con una pausa pranzo di un’ora e mezza, dove chi non ha i mezzi non mangia), si sarà ammessi all’università.

Qui in Etiopia le classi sono 12, c’è un esame tra la classe 10a e l’11a, due anni di preparazione per l’università (11 e 12), poi un esame di ammissione. Chi lo passa va all’università e la possibilità di scelta della facoltà dipende dal voto ottenuto: migliore il voto, più ampia la scelta.

135 - 133, 130 - 129: questi i risultati degli esami di ammissione alla classe 11a e all’università: praticamente la totalità degli studenti.

Qui l’università significa lavoro, significa sicurezza e realizzazione. E’ gratuita, o meglio: si paga a rate quando si lavorerà, terminati gli studi.

Chi non entra al Lasalle o all’asilo delle salesiane di Zwai andrà in una scuola governativa, dove la certezza di arrivare all’università non c’è.

Ma allora, quei tre ammessi alla terza, quei 5 ammessi alla quarta, i bambini che entrano nell’asilo?

Nel caso dell’asilo le suore sanno che i bambini che entrano nelle loro scuole verranno seguiti fino all’università, e vogliono scegliere quelli che più ne hanno bisogno. Quei 500 che hanno richiesto l’ammissione per i propri figli sono stati sottoposti ad un’intervista, volta a conoscerne la vita economica e sociale: si darà precedenza ai più bisognosi.

Nel caso del Lasalle, invece, sono quei ragazzi cui la scuola può permettersi di pagare interamente la retta; una manciata rispetto ai 1580. Quel 50% circa di studenti interamente paganti copre le spese anche per quelli che non possono. I bambini sostenuti a distanza sono circa una ventina, e il direttore, Belayneh, bussa di porta in porta per trovare dei fondi per avere più studenti, perché qualcuno non adotti il singolo ragazzo, ma la scuola: la quota mensile andrebbe a coprire le spese dei salari, dei materiali…

Ragionando con un occhio al presente, uno al futuro e i piedi piantati nella certezza della provvidenza, stanno costruendo un ostello per 60 ragazze.

Se prima c’era diffidenza nei confronti delle scuole, che toglievano forza lavoro tanto che Suor Elisa, salesiana, ci raccontava di come all’inizio i bambini dopo la scuola facevano dei lavoretti per i quali ricevevano dei soldi. La loro presenza a scuola era motivata dal denaro che portavano in casa. Perché i lavoretti? perché denaro in cambio di nulla non è educativo. Ma se prima era così ora lunghe file di persone chiedono una possibilità per i propri figli.

La speranza è che le generazioni che stanno nascendo, andando a sostituire quella al governo, lavoreranno sulla propria esperienza.

Emanuele Ferrarini:

 

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la lunga fila dei respinti.

Venerdì 11 Settembre 2009

Questi i risultati dei test di ammissione alle classi terza e quarta della scuola Lasalle: 99 domande e 3 ammessi, 115 richieste, 5 selezionati.

Zwavi: un piccolo cartello comunica che il giorno dopo verranno aperte le iscrizione alla prima classe dell’asilo. L’orario segnato è alle 9, ma alle 9 e 15 si chiudono i cancelli.

Forse verrebbe da pensare che le scuole dei missionari, fratelli cristiani a Meki e suore salesiane a Zwai, abbiano aule piccole, ma non è così: la scuola di Meki ha in totale, divisi nelle 12 classi del sistema etiopico, 1580 studenti, la classe d’asilo di Zwai ha 60-70 bambini.

Alle 9 di sera, davanti all’asilo c’era chi prendeva posto per essere il primo della fila dopo una notte passata in coda; 500 le richieste quando hanno chiuso i cancelli.

Studiare in una scuola come la Lasalle di Meki significa che, dopo duri sacrifici (si studia dalle 8 alle 5 del pomeriggio, con una pausa pranzo di un’ora e mezza, dove chi non ha i mezzi non mangia), si sarà ammessi all’università.

Qui in Etiopia le classi sono 12, c’è un esame tra la classe 10a e l’11a, due anni di preparazione per l’università (11 e 12), poi un esame di ammissione. Chi lo passa va all’università e la possibilità di scelta della facoltà dipende dal voto ottenuto: migliore il voto, più ampia la scelta.

135 - 133, 130 - 129: questi i risultati degli esami di ammissione alla classe 11a e all’università: praticamente la totalità degli studenti.

Qui l’università significa lavoro, significa sicurezza e realizzazione. E’ gratuita, o meglio: si paga a rate quando si lavorerà, terminati gli studi.

Chi non entra al Lasalle o all’asilo delle salesiane di Zwai andrà in una scuola governativa, dove la certezza di arrivare all’università non c’è.

Ma allora, quei tre ammessi alla terza, quei 5 ammessi alla quarta, i bambini che entrano nell’asilo?

Nel caso dell’asilo le suore sanno che i bambini che entrano nelle loro scuole verranno seguiti fino all’università, e vogliono scegliere quelli che più ne hanno bisogno. Quei 500 che hanno richiesto l’ammissione per i propri figli sono stati sottoposti ad un’intervista, volta a conoscerne la vita economica e sociale: si darà precedenza ai più bisognosi.

Nel caso del Lasalle, invece, sono quei ragazzi cui la scuola può permettersi di pagare interamente la retta; una manciata rispetto ai 1580. Quel 50% circa di studenti interamente paganti copre le spese anche per quelli che non possono. I bambini sostenuti a distanza sono circa una ventina, e il direttore, Belayneh, bussa di porta in porta per trovare dei fondi per avere più studenti, perché qualcuno non adotti il singolo ragazzo, ma la scuola: la quota mensile andrebbe a coprire le spese dei salari, dei materiali…

Ragionando con un occhio al presente, uno al futuro e i piedi piantati nella certezza della provvidenza, stanno costruendo un ostello per 60 ragazze.

Se prima c’era diffidenza nei confronti delle scuole, che toglievano forza lavoro tanto che Suor Elisa, salesiana, ci raccontava di come all’inizio i bambini dopo la scuola facevano dei lavoretti per i quali ricevevano dei soldi. La loro presenza a scuola era motivata dal denaro che portavano in casa. Perché i lavoretti? perché denaro in cambio di nulla non è educativo. Ma se prima era così ora lunghe file di persone chiedono una possibilità per i propri figli.

La speranza è che le generazioni che stanno nascendo, andando a sostituire quella al governo, lavoreranno sulla propria esperienza.

Emanuele Ferrarini:

 

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A piccoli passi

Venerdì 11 Settembre 2009

Quando vedi che c’è così poca giustizia sociale la domanda che ti poni subito è: "cosa fare?"

E’ forse a questo punto che inizia la confusione. I problemi in Etiopia sono molti. L’Africa, poi, è immensa.

Il rischio che si corre è quello di lasciarsi andare al senso di impotenza lasciando svanire il fuoco che brucia dentro: quel fuoco vorrebbe che ogni persona sulla terra vedesse riconosciuti propri diritti umani.

Per fortuna Paolo Caneva, missionario laico da 5 anni in Etiopia, ci indica un sentiero che ci restituisce la nostra possibilità di azione: la giustizia sociale si costruisce avendo coscienza di chi si è, di dove e come si vive. Avendo cura di quel bene immenso che è l’acqua, consumando meno e più attentamente, liberandoci dalle dipendenze quotidiane che il "padrone-televisione" ci impone, vivendo più semplicemente  e lentamente. In questi "piccoli" passi c’è tutta la potenza necessaria per camminare accanto a questi popoli, meravigliosi nonostante la difficoltà in cui vivono.

E ciò che è davvero importante è che possiamo farlo tutti, nel posto in cui viviamo, ogni giorno.

Fabiola Abbati

 

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Trieste, 30 agosto ’09

Martedì 1 Settembre 2009

Non è passata una settimana dal ritorno dall’Angola e sono ancora alla disperata ricerca di riuscire a mettere a posto l’enormità di foto che ho scattato.

Un po’ tutti aspettano queste foto, Lumbelumbe, i ragazzi di Roma,i ragazzi di Mogliano, i medici del Burlo Garofano, ospedale pediatrico triestino, che operano a Luanda ed anche i vari Padri delle Missioni Salesiane che abbiamo visitato ed anch’io che spero,in tutta franchezza,di riuscire a farne qualcosa.

Questa mattina complice la splendida giornata, sono andato a fare un giro sul lungomare della mia città e mentre mangiavo un gelato, seduto su una bitta, dando le spalle al lento e tranquillo traffico di una domenica di fine agosto, guardando il mare, mi sono apparse come in un flash-back tutte le immagini e le sensazioni di queste tre settimane passate in Angola.

Il mare che unisce,il mare che divide.

Questo liquido riesce allo stesso tempo bagnare le coste dell’Angola e quelle di Trieste ed in egual modo rappresenta una barriera liquida che divide questi due paesi, questi due continenti da chilometri di distesa umida.

Allora,pur essendo tanto veloce a fare fotografie quanto pigro nello scrivere, ho deciso di mettermi sul computer per imprimere i ricordi di questa ”vacanza” prima che svaniscano come il gelato che sto mangiando.

Non saprei da dove iniziare ma credo che i “ragazzi”, scusate se uso questo appellativo, siano un ottimo punto di partenza.

Non vi ho frequentato sempre, anche perché ho fatto il Jolly nelle varie missioni ma nel poco che Vi ho visto, ho condiviso con Voi degli attimi intensi, sono stato presente ai Vostri cambiamenti, alla presa di coscienza di un luogo così difficile come può essere l’Angola, alle Vostre crisi ed anche ai Vostri momenti di rabbia perché pensavate che tutto quello che avete fatto era poco o niente nell’enormità delle cose da fare.

Ma penso che se un domani qualsiasi persona che si presenterà ad N’dalatando verrà accolta con un”VINCE AMICU MIO”da parte dei bambini sarà una enorme vittoria.

Il fatto che più di qualche bambino abbia “preso” una matita colorata e quando su un pezzo di carta sporco, stracciato cercherà di fare un fiore o un animale penserà a Voi, sarà una vittoria.

I cerotti che avete messo anche a coloro che Vi mostravano dei graffi da mesi guariti sono una vittoria perché avete dato a quei bambini un’attenzione che non avevano mai avuto.

Il fatto di venire accolti come dei fratelli e assaliti a tal forza che spesso le magliette ne portano l’indelebile ricordo è sempre una vittoria.

Potrei continuare con esempi di cose che avete fatto, che hanno cambiato Voi e le persone che Vi circondavano, a me fotografo e giornalista, un po’più datato di Voi e più smaliziato dai viaggi nelle zone di crisi del mondo, pur avendo un limite diverso, avete dato una grande lezione di vita e di freschezza morale, perché ho conosciuto delle persone che, sono sicuro, sapranno migliorare questo mondo, avranno una esperienza che se condivisa con i Vostri coetanei, farà capire di quante cose inutili ci circondiamo, dimenticando la cosa fondamentale, la bellezza della vita stessa.

Forse non sarete testimoni di questi avvenimenti, lo saranno i Vostri figli o i Vostri nipoti ma sarete stati Voi a dare l’impulso iniziale e questo Vi rende diversi e nel mio cuore avrete sempre un posto speciale, per me, abituato a vivere i viaggi come un’esperienza personale e solitaria.

Essendo un laico e, devo essere sincero, frequentando poco l’ambiente Cattolico e dei Salesiani, è stata una meravigliosa sorpresa trovare una organizzazione così ben strutturata e radicata nel territorio, di questo devo ringraziare un poco tutti i Padri missionari che ho conosciuto ma in particolare modo, Padre Filiberto con il quale ho condiviso il lungo e terribile viaggio da Luanda e Luena e ritorno,oltre 3000 km di strada, pista, sterrati, burraco e di tutto quello che si può trovare lungo le strade di un paese africano.

Con lui in un misto di portoghese, spagnolo ed italiano ho condiviso un viaggio di oltre 30 ore e con lui mi sono aperto come non ho mai fatto nella mia vita, nemmeno i miei amici più intimi hanno avuto la possibilità di condividere questi miei pensieri, muito obrigado a Vossé, Padre.

Un ricordo particolare và sicuramente a padre Marcelo che con la sua bonaria energia atomica dirige il centro don Bosco della Lixeria e tutti i piccoli centri salesiani annessi a questa realtà, di te Padre ricorderò come con un cenno delle tue sopraciglia incolte, una linea unica che taglia a metà il viso, centinaia di bambini zittiscono e ti stanno ad ascoltare.

Ricorderò padre Roberto, canuto, ma come un baobab dritto e maestoso affronta i monsoni, tu affronti nei giorni le difficoltà di riportare alla realtà i bambini di strada, scegliendo di andarli a cercare nel loro ambiente tra rovine e ferri arrugginiti durante la notte nel momento più difficile e più pericoloso.

Ricorderò padre Cassoma, grande appassionato di basket, unico angolano tra tutti questi padri che ho conosciuto con il grande sogno di riuscire a cambiare la visione del futuro del suo popolo.

Ricorderò tutti i bambini che ho fotografato, porto la loro testimonianza nel mio computer, in particolar modo quelli di Boa Vista, per arrivarci bisogna scendere per un centinaio di metri nelle immondizie come fosse un sentiero di montagna e dove ho visto più di qualcuno di noi arricciare il naso all’odore terribile che queste immondizie sprigionano,Voi mi avete ricordato che bisogna gioire di quello che si ha al momento, un pallone, un corda anche solo un pezzo di legno che possa servire per giocare.

Un piccolo ma meraviglioso ricordo ai medici dell’ospedale Divina Providencia, tanti sono degli specializzandi di un ospedale infantile della mia città che con affetto e dedizione cercano di curare bambini affetti da cose terribili come hiv, tubercolosi, malnutrizione ed anche malattie che solo in africa possono esistere come lo kwasharkor, con loro ho passato dei momenti speciali.

Un bellissimo ricordo va ad una persona con le quale ho condiviso solo una giornata, Anna,una architetto che segue il progetto della casa del miele, lei come una guerriera ogni giorno si faceva 2-3 ore di pista africana per raggiungere il sito dove la casa del miele sorgerà e dove ogni giorno doveva combattere con i problemi pratici africani e solo un incidente stradale è riuscito a fermarla.

Adesso rimane il ricordo dell’Angola o forse dovrei dire dell’Africa che ogni volta riesce a colpirmi dritto nel cuore con le sue contraddizioni, un continente dove non esistono vie di mezzo, dove amore, odio, violenza, pace, ricchezza e povertà si mescolano in una maniera che solo in Africa ho potuto trovare ed ogni volta riesce a far scaturire dentro di me le medesime contraddizioni, l’odio e l’amore per questa terra mi arrivano violente dal cuore e dal cervello vedendo e fotografando quello che ho davanti.

Mi dispiace che questo era il Loro inverno ma l’alba a Luena alla partenza con padre Filiberto, con 6 gradi di temperatura ed un cielo terso come poche volte si può vedere nelle nostre industrializzate ed inquinate città sarà un ricordo indelebile.

Anche la Lixeria con la sua puzza e sporcizia sarà un ricordo perché ogni luogo ha un suo odore e quello sarà per me l‘odore di Luanda che porterò nel cuore

L’ultimo ricordo va ad una collega, Paola, che tanti mesi fa, per caso, mi ha fatto conoscere questa organizzazione Lumbelumbe che mi ha permesso di compiere questo viaggio e di conoscere questa nuova realtà,quindi……

Grazie Paola e grazie Italo per l’esperienza che ho potuto fare tramite il Vostro aiuto.

Claudio Tommasini

 

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Un chicco di caffè per ogni goccia di pioggia…

Lunedì 31 Agosto 2009

 

Sono mani sapienti quelle che versano il caffè. Ripetono gesti antichi quando versano la polvere di caffè e il sale nella caffettiera di terracotta che sta cuocendo sul fuoco. Mentre la polvere nera scende nella bocca del vaso la pioggia, fuori, continua a cadere. Stavamo tornando dalla casa di Sisaye, l’insegnante che ci aveva invitato a prendere il caffè nella sua abitazione, un tukul, o ‘kogio-bet’ (casa circolare), distante circa mezz’ora dalla Salam Bet, la casa che ci ospita, quando la pioggia ci ha sorpreso cadendo così tanto da costringerci a chiedere riparo in un’altra abitazione. Il padrone di casa è un uomo che ha, a detta di Paolo, tra i 20 e 25 anni; inutile chiederlo a lui, perché qui non tengono conto del tempo che scorre. Anche i suoi gesti e i suoi occhi riflettono tempi antichi, una maturità che mi aveva fatto credere che fosse molto più vecchio. Ci fa entrare, aprendo una porta fatta coi pali che copre l’entrata solo fino a metà altezza, per permettere alla luce di entrare. Poca,ma sufficiente per distinguere, dalla nostra panca a ridosso della parete, che questa abitazione è, o meglio è stata, più curata di quella di Sisay: se quella aveva la parete di divisione del tokul, che divide in due l’area (dove dormono, mangiano e cucinano e la stalla), realizzata con dei teli di stoffa, questa ha una parete solida; se quella aveva la parete lasciata color terra, questa ha la parete lasciata color terra per un pezzo e poi pitturata di bianco. Ma le stuoie sono più vecchie, il tetto ha dei buchi e tutta l’abitazione trasuda un’eleganza passata. Non vi sono parole, solo il pronto riattizzare il fuoco, il soffiare sulle braci, il preparare il caffè, lasciato poi fare alla moglie, mentre lui va a prendere la legna sotto alla pioggia: si vede il piacere che c’è nell’avere degli ospiti e qualcosa da offrire. Dietro alle gambe della moglie si nasconde una bambina, impaurita dal nostro silenzio e dal nostro biancore. Il caffè è pronto, ci viene servito su un tavolino che l’uomo è uscito a prendere fuori, sotto la pioggia. La donna entra nell’altra parte della casa e ne esce con dei piselli tostati, per poi ritirarsi in un angolo buio: deve allattare. Fuori spiove. Mentre beviamo - a piccoli sorsi! - il caffè salato, masticando quegli ottimi piselli, sono colpito dalla lentezza dei gesti, dall’umiltà di offrire ciò che si ha e dalla dignità che c’è sui loro volti e sulle storie che quei volti hanno da raccontare. Storie che da noi non ho mai letto. Storie che qui, per una goccia di pioggia, sono offerte insieme al caffè.

Emanuele Ferrarini

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Riflessione sul concetto di solidarietà

Sabato 29 Agosto 2009

 

Per il nostro primo giorno di permanenza a Emdibir, Paolo ha organizzato presso la Salam Bet dove siamo ospitati un incontro di benvenuto con il vescovo della diocesi.

Monsignore Musie Ghebreghiorghis si presenta subito in modo affabile, come forse non mi sarei aspettata, tanto che il clima formale che si era creato ad inizio incontro ben presto lascia il posto ad una chiacchierata “tra amici”, accompagnata da orzo tostato ed ottimo caffè.

Il nostro interlocutore è disponibile a parlare (in un italiano impeccabile!) di qualsiasi tematica ci interessi, spaziando tra gli argomenti  più disparati quali la religione, la politica, le tradizioni locali, l’agricoltura e problemi quali l’hiv e la povertà del paese.

Particolarmente interessante è stata l’interpretazione del volontariato come forma di solidarietà: a suo avviso infatti anche un’esperienza di breve durata come la nostra ha di certo un grandissimo valore per la gente del posto.

Sono rimasta molto colpita da questa riflessione dal momento che più volte mi sono chiesta quale sia effettivamente il vantaggio per le persone del posto di avere per qualche giorno qualcuno che arriva (magari porta anche un po’ di scompiglio!) e poi se ne va…la ricchezza che il volontario porta a casa da un esperienza come quella che stiamo vivendo qui in Etiopia è indiscussa…ma chi rimane?

Ebbene, secondo Musie qualsiasi esperienza di volontariato può essere intesa come una forma di solidarietà che trasmette cultura, educazione e progresso, anche se concentrati in poco tempo. Ciò che i volontari portano alle persone che incontrano è un modo migliore di vivere, un punto di vista nuovo e alterativo.

Non avevo mai pensato al mio ruolo di volontaria in questi termini e se da un lato questo mi fa percepire un po’ di più la responsabilità legata alla nostra presenza qui, dall’altro mi sento quasi sollevata nell’aver trovato una risposta così sincera e naturale a quello che a me sembrava un interrogativo quasi sconveniente.

Insomma, sono rimasta piacevolmente sorpresa dall’incontro…. e siamo solo al primo giorno..chissà quante altre persone interessanti incontreremo nel corso della nostra permanenza qui….bhe’, si sa, il tempo in Africa ha tutto un ritmo tutto suo , quindi aspetto, senza fretta…..

Cristiana Bruè


 

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Cosa porterò con me

Sabato 22 Agosto 2009

Siamo quasi alla fine di questa esperienza e gli ultimi giorni fai un po’ il bilancio di come è andata, cosa ti ha colpito, cosa  porterai con te, quali ricordi.

Credo e sono sicura di questo, che mi ci vorrà molto tempo per capire ciò che ho immagazzinato, tempo per pensare a ciò che è stato, e questo accadrà una volta tornata a casa, alla vita quotidiana, solo allora potrò dire cosa mi è rimasto. Ora mi sento piena, piena di tutto, emozioni, sensazioni, cose belle e brutte.

Se torno alla partenza per arrivare qui, sicuramente immaginavo molte situazioni in maniera differente. Vivere alla Lixeira è dura, un po’ mi ero preparata, ma stare qui, vedere dal vivo, sentire ed odorare è tutt’altro!

Poi ti sposti per la città e continui a vedere altro…grattacieli, SUV, cartelloni pubblicitari al plasma..e allora ti chiedi come sia possibile, come è possibile che alcuni vivono nel lussoe nel quartiere accanto molti vivono in catapecchie costruite su una montagna di rifiuti!

Poi ti sposti ancora, fuori dalla città e vedi altro ancora. Un’Angola piena di colori, di profumi, verde, rosso, arancio.

Tanta gente povera, ma che lavora, che forse è più aperta e meno diffidente di chi vive in citta’.

Un mese è’ poco, quasi niente per conoscere un paese; un paese così diverso e lontano da quello in cui vivo e forse strano da capire per me. A Roma mi ritrovo sempre a correre, correre, mentre qui capita spesso di star fermi ad aspettare, aspettare.

Anni fa magari si impiegava tantissimo tempo ad andare da un posto all’altro della citta’ a causa delle strade…ora e’ uguale, impieghi tanto tempo a causa del traffico, delle troppe macchine e ancora mi domando come sia possibile.

Mi chiedo quanto c’entri io, il mondo occidentale in cui vivo, se il tempo dello sfruttamento non è finito, se ora ci permettiamo di dirgli e fargli avere degli esempi ‘giusti’ da seguire.

Tante, tante domande si muovono nella mia testa, sentimenti contrastanti, un tumultuo e confusione…ecco cosa mi portero’!!!

Maria Luisa Medelin

 

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La amo e la odio ormai

Giovedì 20 Agosto 2009

  

2002, 2003, 2004, 2006 e ora 2009: sono gli anni in cui ho vissuto l’Angola. Dico "vissuto" perché non penso di averla visitata da turista o di averci semplicemente lavorato da cooperante. Ho instaurato con essa una relazione strana.

Ogni volta e’ stato un incontro diverso con questo Paese meraviglioso e martoriato insieme, terra di contrasti, popolo generoso e vitale ma allo stesso tempo violato nella sua stessa essenza. Le riflessioni che mi ha sempre innescato sono innumerevoli e contrastanti anch’esse e ad ogni modo ogni volta ne ho fatte di diverse. Il 2002 era stato l’anno della scoperta per me, la scoperta di una terra devastata ovunque. Devastata la terra e devastate le persone, un mondo impossibile, una realtà inconcepibile, tanto da sperarne la sua non esistenza. Sognare di chiudere gli occhi e riaprirli vedendo altro, altre cose, altre facce, altre strade, altro! Potendo scappare, magari cambiare canale ogni tanto… Invece no, costretto a vedere tutto, 24 ore su 24 e per un mese intero! Il 2002 però era anche l’anno più felice per la popolazione angolana perché finiva infatti la lunga guerra trentennale che ne aveva deturpato il corpo e lo spirito. Era l’inizio della fine della guerra, un timido sogno che forse si avvera, una fievole speranza che davvero quella parola senza senso esista: pace! E quella volta lo fu davvero a quanto pare. Così quello per me fu l’anno del colpo di fulmine nonostante tutto. Poi più di un anno di conoscenza, tornando dal 2003 al 2004, per ritrovarla già cambiata nel 2006, avviata quantomeno ad un cambiamento. Nuove merci, più banalmente nuovi prodotti alimentari, facevano capolino tra i mercati, addirittura un nuovo grande supermercato a Luanda a fare da concorrente al sempre incontrastato e vecchio Jumbo. Spariti o quasi i posti di blocco sulle strade del Paese, ridotti drasticamente i militari in giro e persino un po’ le forze di polizia. La telefonia mobile appare e si diffonde anche fuori Luanda con uno scarto spazio-temporale che mette in mano il cellulare all’abitante del villaggio che ancora non ha il frigorifero in casa o che non ha neanche mai visto un classico telefono a fili. Nuove presenze si aggirano numerose per l’Angola. A ricostruirla. Sono un milione circa di cinesi. non parlano il portoghese, non l’inglese, non il francese… Non comunicano e basta, lavorano però. Non lavorano solo a livello di quadri, no. Fanno tutto, fanno tutto loro alacremente, sotto il sole e con la pioggia martellante e gli angolani, disoccupati la maggior parte li osservano, spesso trovandoli strani e quindi molto divertenti. Risate a non finire questa gente mica ha perso l’allegria nonostante tutto! ingenuità disarmante. Dall’altra parte colonizzazione silenziosa.

Venendo ad oggi, agosto 2009, mi sento cambiata nel mio modo di vedere e vivere l’Angola. Il mio rapporto con questo Paese si é evoluto ultimamente. Da un iniziale amore cieco, irrazionale, acritico e inconsapevole sono passata ad un rapporto più maturo e guardingo ma anche di insofferenza con  l’Angola. Eppure il fatto che io continui a desiderare di rivederla a distanza di tempo, di sincerarmi del suo stato di salute, di sperare per la sua crescita futura in un senso positivo o almeno in una direzione che sia la meno sbagliata possibile… Mi fa intendere che la vivo pur sempre con una certa commozione. Alcuni, cooperanti, espatriati in questo Paese, diplomatici o simili si fanno cinici col tempo, sarà un’autodifesa o semplice disillusione? Un po’ li capisco, ogni tanto mi sono sentita indurita dentro anch’io.  

Ora che persino le strade non sono più di terra, di sabbia o di mezze pietre e vecchio asfalto distrutto… Ora che invece di 12 ore (salvo imprevisti) per arrivare da Luanda a Malanje ne impieghiamo la metà e che l’asfalto é arrivato fino alle Pedras Negras o al Parco Quilombo di N’dalatando, mi pare che questi posti siano entrati a far parte a tutti gli effetti del mondo, sono divenuti città, luoghi di interesse, hanno assunto di diritto un posto nelle mappe, nelle cartine geografiche che troviamo nelle agenzie turistiche o nelle aule delle scuole e non sono più soltanto luoghi remoti e impervi, leggende legate ad antichi esploratori o a guerriglieri nascosti nella foresta. Ora Luanda non é più un buco nero dal quale si passa ad un’altra dimensione, ora é terra per investimenti, é nuovo mercato, é entrata anch’essa in quel grande mondo a senso unico che é il nostro, il mondo globalizzato. L’isolamento é finito, l’Angola esiste! L’Angola é ricca (la nazione, non assolutamente la popolazione), petrolio diamanti e terre, città interamente da ricostruire. E´ancora terra di frontiera, terra di conquista, immensamente appetibile ma accessibile anche. Forse troppo. Ciò me la rende vulnerabile. Il dilemma che mi rimane in mente quindi é: come si svilupperà? Io non ho dubbi sul fatto che si sviluppi ma temo il come… Volerne il suo bene al di là del desiderio ormai esaurito di rivederla per un’ennesima volta (lo penso ora ma sarà vero?) mi rimanda ad un contrasto mio interiore. Come poteva essere altrimenti? Siamo in un luogo di contrasti. Come una passione fugace che si trasforma in rapporto vero e inscindibile di amore-affetto, il mio personale contrasto infatti é: Angola non ti sopporto più ma ti amerò per sempre!

Bianca Saracino (accompagnatrice del gruppo a N’dalatando)


 

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Mal d’Africa

Giovedì 20 Agosto 2009

 

Dopo quasi tre settimane di permanenza qui alla Lixeira, oltre ad essere diventati una presenza abitudinaria per gli abitanti di questo luogo e per tutti i bambini, entriamo in contatto con chi ha fatto la nostra stessa esperienza negli anni passati scoprendo le loro diverse storie. 

Ci ha colpito il potere di attrazione e cambiamento che questo luogo ha esercitato sulle loro vite.

Tutti, dopo neanche un mese di soggiorno, sono tornati a casa e hanno deciso di intraprendere un cammino che li facesse tornare, concretizzando il loro impegno nel contribuire al lavoro di sviluppo di questo luogo.

Ognuno a suo modo: chi attraverso un cammino di Fede vivendo pienamente la Comunita’ Salesiana; chi mosso da interessi “sentimentali” e che oggi ha formato una famiglia; chi seguendo dei progetti a lungo termine.

In fondo, non ci stupisce, perche’ una volta conosciuta questa realta’ non ci si puo’ allontanare con leggerezza dimenticandola, anzi non la si può che includere nella propria vita consentendole di arricchirci nel gesto e nella pratica dell’altruismo, valori che qua acquistano uno spessore impensabile altrove.

Hwa Rang Do

 

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Dove andrà l’Angola?

Mercoledì 19 Agosto 2009

 

 

Traffico disordinato ed intenso. Pedoni ed animali che all’improvviso attraversano la strada. Commercio e mercati a cielo aperto. Ragazze appena adolescenti, con un bambino legato alle spalle. Baracche di terra, ammassate ai lati della strada. Puzza di bruciato, polvere e terra rossa ovunque. Cani, maiali e bambini che scavano insieme nell’immondizia. Rigagnoli d’acqua stagna.  Centinaia di bambini, pochissimi anziani. Treccine, sandali e qualche straccio addosso. Questa è l’Angola che appare ai miei occhi: primitiva, disarmante, basilare.

In giro regna il caos, il disordine, la confusione. Ti rendi subito conto che c’è molto da fare e ti chiedi da dove iniziare?!

Guardi i volti della gente, gli sguardi persi, capisci che ci vorrà tanto tempo per ricostruire un paese che sembra un bimbo che muove i primi passi. 

Dopo una guerra civile durata 27 anni che ha devastato l’intero Paese, provocando almeno mezzo milione di morti e riempiendo il territorio di mine inesplose, c’è voglia di normalità in Angola. Voglia di riprendere a costruire, a lavorare, a studiare…ma la ripresa è dura, ed i progressi tardano ad arrivare!

L’eredita della guerra pesa come un macigno: mancano luce elettrica, acqua corrente e fognature. Non ci sono servizi, negozi, uffici o infrastrutture. L’agricoltura è pressoché assente. Le poche case lasciate dai colonizzatori portoghesi, sono tutte sventrate.

In giro tanta polizia a ricordare che il percorso verso una nazione veramente libera è lungo. L’accesso ai bene è consentito solo ad una minoranza privilegiata, la maggior parte vive di stenti anche se con grande dignità e voglia di andare avanti.

Insieme ai Cinesi che costruiscono strade, ed a qualche signorotto portoghese che è tornato ad investire i suoi soldi in Angola, a N’Dalatando siamo gli unici bianchi che si vedono per strada.

Qui nella missione i bambini impazziscono con noi:ci riconoscono, ci chiamano per nome, aspettano sul porticato che arrivino le 14,30 ed inizi l’oratorio. Sono tanti, piccoli, furbetti, impazienti, sporchi. Ti si appiccicano dappertutto, cercano la tua mano, non ti mollano, ti riempiono di baci, ti puntano gli occhi dritti nei tuoi. Non chiedono molto: il fatto che tu sia li, basta a farli sentire amati. Un foglio e qualche colore; uno stornello ed un balletto improvvisato…è quel che basta per vederli felici. È  difficile da accettare: vorresti fare molto di più, lasciare una traccia, un ricordo, qualche insegnamento. Ti senti inutile, ti chiedi se ha un senso ciò che stai facendo.

Il settore dell’educazione e’ trascuratissimo: molti non sanno ne leggere ne scrivere. Non c’è personale qualificato per lavorare nelle imprese. L’economia è ferma. Bisogna rimboccarsi le maniche e ripartire da zero. Le risorse ci sono. quello che manca e’ formazione, coscienza, e rispetto. Ma è evidente che ci vorrà tanto, che il cambio sarà lentissimo, e lo sforzo da fare molto.

Vedo un bambino che costruisce mattoni di terra cotta per la sua nuova casa. Penso che è cosi che va immaginata la ricostruzione del paese….un mattone dopo l’altro, a piccoli passi, con le mani dei più giovani.

Laura Teodori.

 

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