Etiopia 2013

…il dono della diversità

Giovedì 12 Settembre 2013

Dopo tanti viaggi in Africa, io ancora non riesco a capire cosa mi lega, così profondamente, a questo continente. Sono appena tornata dall’Etiopia, da ventitre giorni immersi tra campagna e città, da un viaggio di turismo responsabile, quindi a diretto contatto con le più vere realtà.
Getche, nella regione del Guraghe, a Sud-Ovest di Addis Abeba, è stata l’utero che mi ha accolta inizialmente, con la sua vita rurale, gli spazi sconfinati, le capanne di legna e fango e paglia, il rosso della terra, e quell’unica strada asfaltata. Getche, con gli occhi grandi e brillanti dei suoi bambini che osservano “il diverso” con genuina meraviglia e curiosità. Getche risucchia il cuore in un vortice di emozioni quando presti aiuto nella clinica della missione, e scopri che quei bambini, quelle persone, mangiano solo il pane ricavato dal falso banano nonostante la fertilità della loro terra, e masticano abitualmente il khat con i pochi denti sopravvissuti alla carenza di calcio, vitamine e pulizia. Getche mi ha messa davanti alla scomoda verità che si muore ancora di parto, con facile normalità, così come di malnutrizione o “malasanità”, se non si è educati a lavarsi e a pulirsi da feci e urina. Ma ho anche scoperto che, proprio dove sembra regnare la morte, può emergere con caparbietà la forza della vita, ostinata nell’impegno quotidiano di molte persone, in una medicazione, in un sorriso, nei piccoli grandi gesti di solidarietà.
Addis Abeba invece è una città sovraffollata e molto disordinata, un crogiolo di diversità credo risultante da una rapida e non controllata urbanizzazione. E mentre la popolazione continua ad aumentare tra rifiuti, scarsità di acqua e di cibo, non interazione sociale e crescente disparità, Paolo Caneva, io e altri volontari abbiamo lavorato con alcuni dei suoi adolescenti su alcuni temi dei quali abbiamo percepito la necessità: conoscenza di sé e educazione all’ambiente. La relazione con i ragazzi è sempre una grande esperienza, soprattutto quando le distanze sembrano molto grandi (nel gruppo vi erano maschi e femmine, cattolici, ortodossi e musulmani, chi parlava solo amarico e chi conosceva qualche parola di inglese), e piano piano ti accorgi che è nello stare insieme umilmente, in reciprocità, che può avvenire la magia. Che “Il Sogno di una Cosa” prende forma, di una società più giusta e più sana, senza muri di separazione, in cui ogni singola diversità si nutre della gioia di esprimere se stessa, di donarsi all’altro e di accogliere i doni dell’altruità.
Forse è proprio questo che mi lega all’Africa: il bisogno di mantenere viva la speranza!
Elisa Barni

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Etiopia 2013

Venerdì 30 Agosto 2013

Quando Alberto mi ha comunicato della sua impossibilità a partecipare, come capogruppo, all’esperienza in Etiopia ho provato, per un attimo, un po’ di disappunto per impegni personali e di LumbeLumbe già presi. Rapidamente, però, sono stato invaso da un senso di libertà e appagamento. Prevedere il mio viaggio con il gruppo sarebbe stata una fuga dal lavoro. La necessità di farlo ha però evitato, ad uno stacanovista incallito come me, quel senso di colpa che avrei inevitabilmente sentito se non ci fosse stata questa necessità dovuta anche al fatto che non ho trovato altre persone disponibili e con un minimo di esperienza. Oggi qui in Etiopia con Ambra, Cristina, Francesca, Luigi, Tiziana, Valentina e Paolo, il nostro riferimento locale, mi sento come alla sorgente. Rivivere, attraverso i loro cuori e le loro emozioni, ciò che ho vissuto la mia prima volta, quattordici anni fa, mi fa stare molto bene. All’inizio erano un po’ impacciati, curiosi e anche un po’ intimoriti davanti ai bambini che abbiamo incontrato. Poi rapidamente hanno preso possesso della loro scelta mettendosi in gioco e immergendosi totalmente in questo viaggio verso l’altro.
Ascoltarli, durante la cena, sulle loro proposte per il giorno dopo. Vivere il loro entusiasmo è stato rigenerante e mi ha fatto riconsiderare il modo di fare, e di agire dei giovani occidentali, più inclini all’ozio mentale ed alla ricerca di una via di fuga dal loro mondo confuso, che a mettersi in gioco per impadronirsi di uno stile di vita orientato al rispetto dell’altro.
L’immersione nella realtà africana è stata graduale. Siamo passati dall’albergo di lusso di Addis Abeba (la casa provinciale delle suore figlie di Sant’Anna) al convento dei Frati cappuccini di Nazareth per poi finire in una casa di Wonij, dove le 5 ragazze si sono dovute organizzare in una sola “camera” con letti, materassi sacchi a pelo e valige. Il loro vero problema però non è stato la mancanza di spazio ma i coinquilini: scarafaggi, di ogni tipo, che giorno e notte, con operosità ed alacrità, hanno svolto le loro faccende. In questo impegno instancabile hanno avuto l’ardire di passeggiare sulle valige, zaini, e persino sui pigiami e sulle zanzariere, poste come baldacchini sopra i cinque letti. La cucina poi era il loro il luogo preferito soprattutto durante la confezione dei pasti. Chissà se sono proteici!!!
A me e Luigi sono state riservate delle dependance con un tetto in eternit che le ha fatte diventare simili a delle serre. In compenso abbiamo avuto un bagno alla turca con un tubo di plastica dal quale sgorgava acqua calda, che arriva così dalla sorgente. La sporcizia del bagno non era particolarmente disagevole, se non fosse stata integrata da un odore poco sopportabile. Paolo ha preferito montarsi una tenda nel giardino. Il tutto corroborato da qualche piccolo serpentello del quale non ne abbiamo fatto parola alle ragazze per evitare il panico.
La notte invece da poesia… un vociare di rane, uccelli notturni di ogni tipo, ululati di iene e l’eco dell’abbaiare dei cani pronti ad intervenire se le iene si fossero avvicinate troppo alle case.
Una natura poco contaminata che ci ha permesso di riscoprire le stelle e la via lattea, ormai invisibili, dimenticate e coperte dalle luci artificiali della nostra Italia.
Tutto questo è diventato marginale, e anche bello, dopo i primi incontri con i bambini della scuola. Sono stati loro ad accentrare gli interessi ed il lavoro. Nonostante l’impegno che hanno richiesto, per la vivacità persistente nel corso delle lezioni di inglese somministrate dai ragazzi LumbeLumbe, i loro sguardi sono penetrati nel cuore di ognuno e non ne usciranno più.
Uno dei momenti più belli è stato rotolarsi con loro nell’erba durante l’intervallo e sentire la loro gioia quando, con slancio irresistibile, abbracciavano e baciavano le teachers alla fine della lezione prima di allontanarsi dal comprensorio della scuola per aspettarci nella strada di terra sconnessa e correre dietro il fuoristrada con cui tornavamo nei nostri “alloggi” per consumare un rapido pasto.
Il rischio di investirli, ma anche il senso di colpa di non essere a contatto con la terra insieme a loro magari a piedi nudi o con un paio di ciabatte di plastica, impegnava la nostra attenzione ed i nostri pensieri. Un piccolo cenno alle loro “aule” fatiscenti e dignitose, finestre sconnesse dalle quali la vista si perde in una natura incantevole, banchi traballanti dove si siedono bambini che ghermiscono le viscere per il modo con cui ti guardano. Mura con un intonaco approssimativo, verde fino a poco più di un metro e poi bianche, di un bianco che il tempo e la polvere hanno inesorabilmente e prematuramente invecchiato.
Nei pomeriggi gli incontri con 25 donne unite, in un’associazione di fatto, per organizzarsi in attività commerciali nel mercato locale.
Pomeriggi di gioia e condivisione. All’aperto sotto la tettoia della scuola sedute sui banchi, dove al mattino siedono i loro figli. Per l’occasione i banchi sono stati portati fuori dalle aule. Ci guardano incuriosite: “Cosa vorranno questi bianchi?”, “che sonno venuti a fare qui?”, sembra si chiedano perplesse mentre le ragazze LumbeLumbe organizzano il materiale per iniziare le attività. Le sere precedenti, e nell’incontro con le donne di Nazareth, si sono preparate molto per proporre dei lavoretti semplici, fatti con le cose che Grazia, in Italia, ci ha preparato con molta cura. Stoffe di vario tipo, filo, aghi, forbici integrati da perline portate dalle ragazze marchigiane ed altri accessori per il cucito raccolti dalle ragazze romane.
Dopo le prime titubanze si scatena la gioia, chi vuole fare borse, chi braccialetti, chi cinte realizzate con le bottiglie di plastica. Le africane si consultano e dopo un moderato e non breve confronto, optano per le borse con la tecnica del patchwork. Siamo certi che le borse alla fine siano state uno strumento per stare insieme, per cercare di comunicare e di incontrarsi. Non è mancata la passerella con la sfilata delle borse che ognuna, in poco più di un’ora, aveva realizzato. Tra risate e applausi si è concluso questo momento di condivisione e di autentica comunione. Anche le riprese con la telecamera di Ambra sono state molto gradite.
Vedere un villaggio in africa è come una rivelazione: nonostante i documentari che ci vengono proposti, guardarli da dentro è tutta un’altra cosa. Quello dove siamo stati noi, dopo una camminata impervia di due ore, ha stimolato molte domande ed altrettante riflessioni. Una coppia di anziani, con rughe che sembravano scolpite da Michelangelo, “senza pensione” che debbono accontentarsi di ciò che gli viene dato da mangiare dai giovani o dei pochi birr (moneta locale) donati da qualche parente che va a fargli visitai. Una giovane donna, vedova con cinque figli, particolarmente bella. Il suo abbigliamento, di un vestito nero di stoffa molto leggera, lungo fino a terra e visibilmente sdrucito, unto e impolverato. Lo portava con tale grazia da farlo sembrare un capo delle migliori sfilate di moda. Siamo entrati tutti nella sua capanna, ci ha servito, bolliti in una ciotola di legno, fagioli, mais e lenticchie. Ho mangiato con gusto, anche se con qualche rischio.

Parleremo ancora di questa esperienza mancano tante cose da raccontare. Un’esperienza che ha fatto diventare gradevoli anche gli scarafaggi, scomparsi dalla nostra mente e dal nostro cuore, conquistati dallo sguardo dei bambini e dalla gioia delle donne.
I. Governatori

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…. sposta un sassolino

Venerdì 9 Agosto 2013

S. Ambrogio insegna che noi uomini abbiamo il privilegio di poter esprimere con la bocca i sentimenti del cuore e i segreti pensieri del nostro spirito. Ieri abbiamo salutato i bimbi di Nazaret. Li ho guardati tutti negli occhi, ad uno ad uno e sono riuscita a dire loro solo “GRAZIE” (AMASEGHENALLO in amarico). Il nostro privilegio è essere qui a prendere tutto ciò che questo Paese può trasmettere ed è talmente tanto che quasi ci sentiamo in dovere di scusarci perché sentiamo che li stiamo ricambiando con troppo poco. Ma ho capito che se il nostro obiettivo è voler spostare la montagna resteremo sempre immobili, aspettando il momento giusto, aspettando di aver tutto il necessario per partire. Ma non esiste il momento perfetto, basta così poco…
E allora il nostro obiettivo deve essere spostare anche solo un sassolino perché è il piccolo gesto che può fare la differenza.
Non c’è libro, corso, scuola o racconto di terzi che ti può preparare ad un’esperienza come questa. Non sarai mai pronto a dire “smile, always” ad un bimbo che piange perché sa che da domani non sarai più la sua teacher e ti rendi conto che mentre glielo dici scorrono le lacrime anche sul tuo viso. Non saremo mai pronti abbastanza, ma questo non può essere un ostacolo, non può frenarci e non può essere motivo per rimandare. Basta ascoltare la propria coscienza.
Può essere utile, però, far parte di un bel gruppo che porti avanti, compatto, il progetto. Un team affiatato che discute e si confronta, a volte anche duramente, che però è consapevole che con la passione per ciò in cui crede si fortifica e…sposta il sassolino.
Francesca magna

 

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Spritz, teff …. e confort

Giovedì 8 Agosto 2013

Africa, terra dai frutti invitanti! Ce ne sono per tutti i gusti: dall’ananas al mango, dalla papaya alla banana, all’avocado servito con zucchero o sale, allo “spritz”- una fantasia di colori e sapori, armoniosamente disposti nel frullato più chic che abbia mai assaggiato! Etiopia, terra della “‘njera”, preparata con farina di “teff” e acqua, così radicata nell’alimentazione del paese da essere sostituita nel “Padre Nostro” al posto del “pane quotidiano”. C’è però qualcosa che incuriosisce più di tutto: il caffè, preparato e decantato con cura per quasi un’ora durante una vera e propria cerimonia, nella quale il profumo dell’incenso e della tostatura si mescolano sapientemente, creando una dimensione fiabesca. Si perde la cognizione del tempo qui e si rimane stupiti dalla dedizione con la quale la donna prepara il prelibato protagonista. E’ tutto complice a invitarti a far tesoro dello stare insieme, di scoprirsi e riscoprirsi, di prendersi del tempo …. Ci sono tanti momenti come questo in Etiopia, in cui ti lasci assorbire da ciò che ti circonda e ti ricordi della bellezza delle pianure verdeggianti, della meraviglia del cielo per soffermarti poi sul volo di una farfalla e ascoltare il vento …. Qui riacquisisci quel legame con la natura che ti fa sentire parte di un Unico Grande Meraviglioso Progetto. Ho dimenticato da quanto tempo, presa dal senso dell’efficacia delle mie giornate, non mi soffermavo a stare in ascolto … a udire con gli occhi, a vedere con il cuore. Un incontro particolarmente emozionante è stato con le donne del villaggio. La loro naturalezza ed eleganza irradia dalla semplicità con la quale senza i nostri vestiti fashion, riescono ad essere femminili, ad essere Donne! I loro sorrisi, il loro saluto, il modo in cui si sistemano la stola, i visi senza trucco che lasciano trasparire la voglia di mettersi in gioco, di divertirsi, quando alla fine di un pomeriggio di “creazioni borse” accettano di sfilare per noi come delle professioniste. Ci si accontenta di poco a Shoa, come a Wonji e a Nazareth perché quel poco ha la forza dell’autenticità che riempie il tutto. Ci si diverte poco anche a scuola, per chi riesce ad andarci, quando non è troppo lontana, quando non si porta della legna o dell’acqua in bidoni che pesano almeno 10 litri, quando non si va a pascolo con gli animali …. Se hai la fortuna di incontrare questi bimbi a scuola, di essere chiamata la loro “teacher”, di farti delicatamente accarezzare i capelli, di farti provocare dal disegno regalato, fatto apposta per te, hai ricevuto uno dei più grandi doni che un’esperienza come questa ti può dare!. La loro discrezione e la determinazione con la quale durante la pausa ti fanno scivolare la manina nella tua per “assicurarsi” un posto accanto a te, ti fa sorridere e riflettere a quant’è importante la tua presenza; ti senti pieno, ti senti vivo! C’è sempre qualcosa che ti sorprende in Etiopia, come mi è successo al lago Zway, quando siamo andati a visitare la chiesa ortodossa ed ho avuto la sensazione che ad accogliermi c’era San Giorgio con i leoni; oppure durante la celebrazione della messa cattolica domenicale in lingua locale, quando mi sono sentita improvvisamente a casa! E’ una forte emozione riconoscere melodie e gesti cerimoniosi simili alla messa ortodossa durante questa messa cattolica, celebrata con il rito orientale!
Per chi vuole fare un’esperienza come questa, si prepari a diventare il vero destinatario dell’aiuto che pensava di dare. Stare insieme a questa gente, ridà il giusto valore al presente, l’unica dimensione che fa la Differenza. La ricerca del “confort” più “confort” diventa goffa davanti ai bisogni che qui ci colpiscono con forza e le smorfie da occidentali, impreparati alla vita, non reggono più; ed è così che ti accorgi che il nostro mondo ovattato non solo ha messo in stand-by una parte del nostro cervello, ma soprattutto la nostra anima e il cuore!
Grazie Etiopia, terra di aromi, colori, suoni e aspirazioni! Grazie Dio!
Cristina Lungu
 

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“Walking in the african darkness”

Giovedì 1 Agosto 2013

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In Etiopia accade che, dopo una cena consumata all’aperto davanti ad un falò, vai a fare una passeggiata con persone del posto per avvistare le iene. Ti avvii piena di curiosità e di trepidazione e ti ritrovi immersa nel buio della notte africana, rotto solo dalle flebili luci delle pile. Le forme dei grandi alberi si stagliano nel cielo pieno zeppo di stelle e ti accorgi che la Via Lattea esiste ancora. Poi nell’oscurità scorgi in lontananza fessure fluorescenti e sono gli occhi delle iene che, noncuranti della presenza umana, filano via mostrando le loro sagome sfuggenti. Accade che, parlando con gli accompagnatori, scopri che sono degli insegnanti che guadagnano l’equivalente di circa 20 – 30 euro al mese anche dopo ventuno anni di servizio. Raccontano che il loro lavoro non è molto rispettato e quando c’è un problema con un alunno, la famiglia tende a dare la colpa all’insegnante e a difendere il proprio figlio. Un po’ fa sorridere, perché non c’è molta differenza con l’Italia. Eppure le differenze ci sono, e molte, ma in quel buio e in quel luogo, ciò che ti sovrasta è la bellezza.
C’è bellezza in Africa, non solo naturale, ma in un modo che non t’aspetti. È la bellezza del Bosco Children Centre, un centro salesiano che raccoglie bambini di strada ad Addis Abeba per avviarli all’istruzione e ad un mestiere. Dice il suo fondatore, don Dino, che è il progetto più bello del mondo e ci credi perché è un luogo di armonia ai limiti di strade intricate e costeggiate da baracche. È la bellezza dei bambini che si presentano al primo incontro con noi indossando la giacchetta della festa o che inseguono la nostra macchina per salutarci con allegria e affetto. È quella di un’antica chiesa ortodossa circondata da un piccolo villaggio a cui sembra donare protezione e tranquillità. È la bellezza dell’accoglienza calorosa di un pranzo domenicale preparato con orgoglio o di una festa organizzata per noi, dove giovani ragazzi ballano danze tipiche nei loro abiti tradizionali. È il fascino di una donna giovane e bella che vive in una capanna, ma che ha il portamento di una regina.
L’elenco potrebbe continuare a lungo, ma non sarebbe l’Africa se non si andasse a visitare il sito di una scuola in costruzione e non si incontrasse una piccola bambina visibilmente sofferente che muove i passi incerti a pieni nudi nel fango. E non c’è né bellezza né giustizia.
30 luglio 2013 – Tiziana Manuale

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La Mia Etiopia!

Giovedì 1 Agosto 2013

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Il desiderio di intraprendere questo viaggio, era vivo in me da mesi ed era più forte di tutti i timori, che in realtà si sono paventati alla vigilia della partenza.
Sto parlando della paura di affrontare un viaggio, non solo nel senso consueto della parola, cioè della scoperta di un nuovo Paese, ma del cammino che porta alla conoscenza di una parte nascosta di se stessi. Sono in Etiopia da quattordici giorni e le sensazioni, le idee e le emozioni sono numerose e confuse, difficili da esprimere obiettivamente.
Per ora ho un’unica certezza. Questo Paese mi ha travolto tutti e cinque i sensi, fin dall’arrivo all’aeroporto ad Addis Abeba.
L’olfatto ed il gusto sono pervasi da odori e sapori forti. In particolar modo, dalle spezie che vengono utilizzate per cucinare cibi, che nonostante alcuni piccolissimi problemi, sto apprezzando.
L’udito è affascinato dal richiamo dal Muezzin e dalle preghiere provenienti dalla chiesa ortodossa; da una lingua a me incomprensibile; dai versi degli animali; dalla folla e dalle risate dei bambini.
Se penso al tatto, mi vengono in mente la terra, le numerose strette di mano e i ripetuti abbracci.
Infine, la vista che sta catturando immagini. Penso che rimarranno indelebili, nonostante le mille foto scattate. Mi riferisco ai colori vivi della natura, grazie alla stagione delle piogge; alla presenza di diverse culture; al traffico caotico; all’incontro con occhi incuriositi, quasi quanto i miei. Ed è proprio su questi ultimi che vorrei soffermarmi. Lo sguardo delle persone del posto ci accompagna ogni giorno e nonostante continuino a spiegarmi che ci osservano perché stupiti, felici o infastiditi dalla nostra presenza, in realtà questo rimarrà un tassello che mi manca e quasi sicuramente non comprenderò neanche alla fine di questo viaggio.
Al mio ritorno in Italia, quando mi chiederanno dell’Etiopia, sono cinque le parole che potrei utilizzare: diversità, bellezza, allegria, crescita e speranza.
AMASEGHENALLO ETIOPIA!!! (Grazie Etiopia!!!)
Valentina D’Arco

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L’Africa chiama. Chi rispone?

Giovedì 25 Luglio 2013

Questo post è dedicato a chi, dell’ Africa, pensa di aver già capito tutto. A chi parte per evadere. A chi l’Africa non la capirà mai e a chi non vuole capirla perché la ritiene un pezzo di mondo di cui, tutto sommato, si può fare a meno. A chi, come me, non basterà una vita per capirla. A chi parte per realizzare, per fare, per cambiare il mondo. La prima cosa che ho imparato dopo aver mosso i miei primi passi in questa terra è che si tratti di grandi o microprogetti, l’Africa è prima di tutto “scuola di vita”. La seconda è che per apprezzare l’Africa si deve uscire dagli schemi della propria cultura, della propria educazione. Spogliarsi di un po’ di se stessi (ma non nella stagione delle piogge perché fa piuttosto freddino..). Superare i nostri pregiudizi. La terza è che avere la possibilità di venire in Africa non è un sacrificio ma un privilegio. “Dove vai quest’estate?” “Vado in Etiopia con LumbeLumbe” e parte subito lo sguardo di pietà o di ammirazione “poraccia questa come sta messa che se ne va in Africa in mezzo alla povertà” oppure “che coraggio, ti stimo!”. Qua non si tratta di coraggio né di stima. Si tratta di capire che la questione africana è “roba nostra”. Che la questione sociale ha ormai una dimensione globale. L’Africa ti interroga ogni secondo dal momento del tuo arrivo. Ripensi a quanto siano davvero necessarie tutte le cianfrusaglie che riempiono le nostre case e spesso le nostre vite e non lasciano spazio ad altro. A quei sogni che hai dovuto togliere dal cassetto perché non ci stavano più, per fare più spazio alle cose. Ripensi al fatto che per te esce acqua dal rubinetto ogni mattina per tutte le volte che vuoi. Pulita, calda, frizzante, molto frizzante, leggermente frizzante, con poco sodio … . Pensi alla classica domanda di tua madre “cosa vuoi mangiare oggi pasta, carne o pesce?” “Sushi o indiano?”. Pensi a come un solo foglio e una matita possono cambiare la giornata di un bambino. La verità è che davanti a questi bambini, davanti ai loro occhi grandi e scuri, davanti ai loro sorrisi, ti senti subito in debito. Vi avverto: è qualcosa che non ti levi più di dosso. Da quel momento in poi non puoi più fingere o ignorare che questa parte di mondo non esista. Pensi a come è ridotta la nostra scuola pubblica, a come sono ridotte le nostre aule e allo scarso rispetto che abbiamo oggi verso l’istruzione e la cultura nel nostro paese. Dove crediamo di stare talmente bene che abbiamo pensato che essere belli come i vip da copertina sia più importante di formare le future generazioni. Perché oggi bisogna essere belli anche per fare politica. A come tutto è una passerella continua. Senza curarci del fatto che i nostri ragazzi sono ridotti ad automi che non comunicano, con cuffiette e smartphone sempre addosso. In Africa, prima ti meravigli e poi ti vergogni per come, anche in un’aula senza vetri alle finestre, spoglia e fatta di poco. Fatta di niente. Si senta l’odore fortissimo del rispetto per il “sapere” per l’imparare. E quando suona la campanella i bambini africani prima di uscire dall’aula ti abbracciano, ti baciano e ti dicono “See you tomorrow teacher!” E se ne vanno a casa con un sorriso.
Ambra, Etiopia 2013

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Amici di LumbeLumbe

Mercoledì 24 Luglio 2013

dopo qualche giorno di permanenza uno degli aspetti che mi ha sorpreso di questa realtà è la relazione che i bambini etiopi hanno con la Terra.
I bambini che ho avuto modo di conoscere, partendo da Teresa e Mary (le figlie di Paolo Caneva, nostro corrispondente qui in Etiopia) fino a Ganet e gli altri alunni della scuola di Nazareth, amano andare a piedi nudi. Non è una questione di igiene o di miseria, perché i sandali probabilmente li hanno, ma ho intuito che sentono la necessità di avere contatto con la madre terra, sentirsi parte di Essa, quasi come attraverso questo contatto possano mantenere e coltivare le loro radici. La polvere è il minimo comun denominatore qui in Etiopia, essa copre tutto indistintamente e sento giorno dopo giorno che, come disse il giornalista Maurizio Di Schino, “la polvere ti entra nei polmoni e nell’anima”.
Questa relazione tra bambini e polvere l’ho verificata sul monte che domina Addis Abeba. Abbiamo incontrato dei bambini che giocavano sul ciglio della strada, naturalmente scalzi, e ci siamo trattenuti con loro nell’attesa di degustare il caffè tradizionale etiope. Con solo un bastone e un paio d’occhiali abbiamo iniziato a giocare e ho visto in loro la sorpresa, il divertimento, la gioia dell’incontro. Parlavano solo l’amarico, ma il linguaggio dei gesti, del gioco e del divertimento abbatte qualsiasi barriera culturale e linguistica. Così un gesto, come l’abbraccio forte e sincero di Samuel e Yashmeda, supera ogni tipo di ostacolo e va dritto nel cuore.
Un altra occasione di incontro con i bambini è stata oggi, 22 Luglio, alla scuola di Nazareth, in un’aula con 25 bambini dai 4 ai 6 anni, composti, dignitosi e soprattutto curiosi, mi ha fatto riflettere. È stata una mattinata intensissima, il loro stupore nel vedermi giocare col pallone mi ha conquistato. Il dono di un sorriso, uno sguardo e la loro spontaneità mi ha inondato al punto di farmi commuovere.
Queste emozioni resteranno sempre con me, fanno ormai parte di ciò che sono e diventerò.
Luigi Marchetti
 

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