Un chicco di caffè per ogni goccia di pioggia…

 

Sono mani sapienti quelle che versano il caffè. Ripetono gesti antichi quando versano la polvere di caffè e il sale nella caffettiera di terracotta che sta cuocendo sul fuoco. Mentre la polvere nera scende nella bocca del vaso la pioggia, fuori, continua a cadere. Stavamo tornando dalla casa di Sisaye, l’insegnante che ci aveva invitato a prendere il caffè nella sua abitazione, un tukul, o ‘kogio-bet’ (casa circolare), distante circa mezz’ora dalla Salam Bet, la casa che ci ospita, quando la pioggia ci ha sorpreso cadendo così tanto da costringerci a chiedere riparo in un’altra abitazione. Il padrone di casa è un uomo che ha, a detta di Paolo, tra i 20 e 25 anni; inutile chiederlo a lui, perché qui non tengono conto del tempo che scorre. Anche i suoi gesti e i suoi occhi riflettono tempi antichi, una maturità che mi aveva fatto credere che fosse molto più vecchio. Ci fa entrare, aprendo una porta fatta coi pali che copre l’entrata solo fino a metà altezza, per permettere alla luce di entrare. Poca,ma sufficiente per distinguere, dalla nostra panca a ridosso della parete, che questa abitazione è, o meglio è stata, più curata di quella di Sisay: se quella aveva la parete di divisione del tokul, che divide in due l’area (dove dormono, mangiano e cucinano e la stalla), realizzata con dei teli di stoffa, questa ha una parete solida; se quella aveva la parete lasciata color terra, questa ha la parete lasciata color terra per un pezzo e poi pitturata di bianco. Ma le stuoie sono più vecchie, il tetto ha dei buchi e tutta l’abitazione trasuda un’eleganza passata. Non vi sono parole, solo il pronto riattizzare il fuoco, il soffiare sulle braci, il preparare il caffè, lasciato poi fare alla moglie, mentre lui va a prendere la legna sotto alla pioggia: si vede il piacere che c’è nell’avere degli ospiti e qualcosa da offrire. Dietro alle gambe della moglie si nasconde una bambina, impaurita dal nostro silenzio e dal nostro biancore. Il caffè è pronto, ci viene servito su un tavolino che l’uomo è uscito a prendere fuori, sotto la pioggia. La donna entra nell’altra parte della casa e ne esce con dei piselli tostati, per poi ritirarsi in un angolo buio: deve allattare. Fuori spiove. Mentre beviamo - a piccoli sorsi! - il caffè salato, masticando quegli ottimi piselli, sono colpito dalla lentezza dei gesti, dall’umiltà di offrire ciò che si ha e dalla dignità che c’è sui loro volti e sulle storie che quei volti hanno da raccontare. Storie che da noi non ho mai letto. Storie che qui, per una goccia di pioggia, sono offerte insieme al caffè.

Emanuele Ferrarini