Il brivido dell’arresto

Oggi abbiamo anche una esperienza molto forte, di quelle che si attaccano sul diario della memoria e non se ne vanno più via. Alle 9.30, io Annalisa, Enzo, Italo e Leopoldo (il seminarista) siamo partiti alla scoperta di una nuova realtà  di Kinshasa. La strada di accesso a questo enorme insediamento urbano tra fogne maleodoranti e cumuli di immondizia è un cimitero. Entrati per l’accesso principale a questo abbiamo iniziato a vedere ai bordi della strada stretta e sconnessa le prime abitazioni. Capanne fatte prevalentemente di terra e acqua color rosso africano. Un ambiente umido, squallido dove la povertà è talmente terribile che anche la persona più superficiale di questo mondo ne rimarrebbe scossa. Camminavamo tra gli sguardi incuriositi dei bambini e diffidenti dei più grandi. Abbiamo fatto anche visita ad una di quelle case e per 500 franche abbiamo avuto il privilegio di fare qualche foto (con disagio). Una casa nuda pareti color grigio scuro, una tenda sulla porta d’ingresso misera e sporca, un salottino color marrone scuro con un tavolino al centro. Ci hanno accolto una donna con un bambino, con molta probabilità ammalato poichè piangeva ininterrottamente, non sembrava lamentarsi di qualcosa da bambino, era un grido di disperazione quello. Attoniti e silenziosi dopo aver salutato e ringraziato la padrona di casa siamo andati via. Ancora qualche chilometro di percorso ed eccoci arrivati sull’estremità di una collina. All’orizzonte un panorama affascinante: tutta Kinshasa era davanti ai nostri occhi. Vedevamo case, palazzi, capanne, il verde intenso delle imponenti palme, il fiume Congo che separa la Repubblica Democratica del Congo dal Congo Brazaville. Su quella terrazza panoramica una pietosa discarica di rifiuti in mezzo alla quale uomini e bambini vesti di umili stracci cercavano il vitto giornaliero. Una scena inquietante uomini di una dignità scomposta  che cercavano tra i rifiuti umiliandosi davanti all’uomo bianco e non  riconoscendolo come suo fratello. Davanti a tale spettacolo, abbiamo chiesto al seminarista che ci accompagnava se potevamo scattare delle foto, ovviamente al panorama. Leopold ha acconsentito ed è stato proprio il suo consenso a farci vivere l’avventura della giornata. Due foto scattate ed ecco che arriva un uomo identificandosi come poliziotto. Inizialmente non gli abbiamo creduto, lo abbiamo quasi snobbato anche perché era vestito di abiti a dir poco normali. Fino a quando ci ha mostrato il suo tesserino che qualificava l’appartenenza alla “polizia” ci ha gentilmente mandato alla più vicina stazione di polizia che distava pochi metri. Stato di fermo per aver filmato in zona militare, questa l’accusa. Fregarci quantomeno una macchinetta o spillarci qualche soldo, questa la vera motivazione. Ci hanno fatto accomodare all’aperto, davanti al posto di polizia (ovvero una piccola e spoglia baracca che non aveva nemmeno le dimensioni di una casa). Dopo avere sostenuto a lungo di non aver filmato o scattato foto è stato necessario aprire la mediazione diplomatica. Primo una telefonata a Don Daniel, poi una don Eduard (responsabile del Seminario) il quale da quanto abbiamo capito li ha invitati ad andare nel primo pomeriggio al seminario probabilmente per riscuotere una modica cifra in cambio del nostro rilascio. Conclusa le trattative, siamo ripartiti per completare il nostro viaggio. Per tornare a “casa” il nostro cicerone ha deciso, con molta probabilità viste le disavventure  di cambiare tragitto. Siamo scesi dal promontorio percorrendo un lungo viale alberato abitato da fastose ville ed ambasciate di ogni genere. Macchine europee ci sorpassavano e gente di appartenenza sociale sicuramente più alta ci incrociavano ignorandoci. Va be, tutto sommato è stato un bel giorno. Mentre facevamo foto, nei giorni precedenti,  avevo previsto il fattaccio. Prima o poi ci arresteranno! E ci hanno arrestato.

Barbara del Fallo