Archivio del 2009

“Si può morire in tanti modi ….,

Lunedì 13 Aprile 2009

 …ma la morte per fame è la più inaccettabile. E’ un modo lento, terribile: a ogni minuto si accorcia la distanza fra la vita e la morte. A un certo punto la vita e la morte sono così vicine che è difficile capire la differenza, e davvero non si sa se la madre e il bambino che giacciono sul selciato sono ancora di questo o dell’altro mondo. La morte, inesorabile viene senza rumore, non ci si accorge neppure del suo arrivo.

E tutto questo accade perché una persona non ha neanche un pugno di cibo con cui nutrirsi. In questo mondo di abbondanza c’è chi non ha diritto a quel prezioso pugno di cibo. Intorno tutti mangiano, ma quell’uomo, quella donna ne sono privi. Quel neonato che ancora nulla sa dei misteri del mondo, si sfinisce di pianto e si addormenta, senza latte di cui ha un bisogno disperato. Forse domani non avrà la forza di piangere”.

La citazione precedente è tratta dal “Banchiere dei Poveri”, libro che mi è capitato fra le mani qualche giorno dopo la lezione di Luca Alinovi e la visita alla FAO. Il passaggio precedente mi è sembrato particolarmente significativo perché riassume in poche righe due punti che quando si parla di fame del mondo mi fanno riflettere. Per prima cosa, proverei a pensare a quali sono i misteri del mondo che il neonato citato sopra non conosce. Probabilmente essi coincidono con quelli ai quali neppure gli adulti sanno dare spiegazione: perché alcune persone hanno la fortuna di nascere in paesi ricchi, dove ci si ammala per l’eccesso di cibo che si ingerisce ed altre in paesi poveri, dove si muore di fame?  La FAO è una risposta che i diversi stati hanno elaborato per affrontare il problema della fame.

Quello che mi ha maggiormente colpito del funzionario della FAO, Luca Alinovi, è stata da un lato, la convinzione e la determinazione nel portare avanti le sue ricerche economiche con molteplici esperienze sul campo, dall’altro l’essere critico verso il suo lavoro e il sottolineare costantemente anche i limiti dell’organizzazione nella quale opera (dal fatto che la FAO disponga di risorse finanziarie minori di molte ONG americane che operano nell’ambito della cooperazione allo sviluppo a interventi che non riescono per la scarsa collaborazione con la gente del luogo).

Affascinante è stato rendersi conto di quale dramma sul piano personale vivono i mediatori della FAO sul luogo in cui intervengono: essi non prendono mai una posizione politica, rimangono neutrali e si trovano a contrattare anche con quelli che uccidono e che sono la causa delle ingiustizie che vedono sotto i propri occhi. Penso che ci voglia una grande forza di volontà e una grande concentrazione sull’obiettivo da raggiungere per rimanere neutrali in situazioni così difficili.

Secondariamente, sia leggendo il passaggio precedente che ascoltando la lezione di Alinovi, mi è venuto in mente che cosa potessi fare io per evitare che le persone continuino a morire di fame. Dal corso che sto frequentando e dalle letture fatte fino ad ora, mi sono resa conto che la cooperazione è un campo strano, estremamente affascinante, ma per certi versi contraddittorio. Non posso qui dimenticare la mia vena polemica e notare che se, da un lato, esistono moltissime persone che si nascondono dietro l’alibi di non esser capaci di cambiare il mondo e quindi non si impegnano in nessuna azione per cercare di migliorare la vita degli altri, dall’altro ci sono quelli che intervengono sul campo, ma più per una questione di coscienza personale (non a caso la cooperazione internazionale è il campo dei ricchi), per non sentire il rimorso di essere in una condizione privilegiata, quasi con uno spirito di affrontare i problemi che potrei definire “coloniale”, con l’atteggiamento dei maestri che insegnano la verità agli scolaretti, senza chiedergli ciò che effettivamente servirà loro per la vita futura. Per quanto mi riguarda, mi chiedo cosa posso fare e come vorrò vivere la mia esperienza africana in Angola. Per dirla con gli Esistenzialisti, il mondo cambia dalle piccole azioni individuali e mi sento di condividere il pensiero di Italo di “sfidare continuamente se stessi e di essere coerenti con le proprie idee” perché credendo fermamente in alcuni principi si riesce a raggiungere obiettivi elevati. Secondo me, solo partendo da questo presupposto, si possono poi affrontare le grandi sfide che la vita ci pone ed aiutare gli altri, siano essi di un colore di pelle differente dal nostro, poveri o ricchi, vecchi o giovani, buoni o cattivi. Secondo me, la cooperazione è prima di tutto un’azione che parte dallo sviluppo personale perché considerare l’altro come se stesso significa apprezzare prima di tutto ciò che si è e ci si stima tanto più quanto più si è coerenti con le proprie idee. Il rispetto per l’altro passa attraverso il rispetto di sé e delle propri pensieri. Cooperare con “l’altro” significa agire con lui e vivere nella realtà in cui lui è cresciuto, ascoltarlo come prezioso collaboratore, valorizzarne i lati positivi e lo spirito di iniziativa, l’intelligenza e la sua visione del mondo capace di arricchire la nostra. Solo così possiamo evitare di incorrere nelle contraddizioni che citavo sopra riguardo la concezione della cooperazione perché la battaglia contro la fame nel mondo passa anche attraverso la sfida di noi stessi.

Pamela Ventura

 

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I have, you don’t have

Lunedì 6 Aprile 2009

 

 

Secondo  l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite attualmente le persone che soffrono la fame sono quasi un miliardo.

Una persona su sei non riesce ad avere una nutrizione adeguata per assicurare al proprio corpo il giusto apporto di proteine e calorie. Un dato sconcertante. Soprattutto se si pensa che  negli ultimi quattro mesi, a causa dell’attuale crisi economica, le persone che soffrono la fame non sono più solo quelle che vivono nei paesi in via di sviluppo ma anche nei cosiddetti Paesi ricchi  .

Secondo Wikipedia la fame “è riferita letteralmente al bisogno di cibo”.

Bisogno di cibo che per noi fortunati si traduce in quella sensazione che si crea dopo un lasso di tempo tra un pasto e un altro. Faccio colazione, dopo qualche ora avverto quella sensazione che non è proprio fame ma è come … un chiamiamolo  “languorino”, allora mangio, fino all’arrivo del pranzo. E poi magari un altro spuntino e alla fine, la tanto aspettata cena. E se proprio voglio esagerare, mangio “qualcosina” anche dopo cena.

E si va avanti così, più o meno, seguendo le tendenze, gli abbinamenti giusti, i suggerimenti dei migliori chef che per essere tali non perdono i loro 15 minuti di celebrità sul grande schermo e quando ci sentiamo di aver esagerato, via con qualche dieta direttamente dalle super Star di Hollywood. E superato il periodo di restrizione si ricomincia, magari stando più attenti agli ingredienti, alle amate quanto odiate calorie, alla freschezza, vivendo con il terrore della data di scadenza di un prodotto.

E mentre noi ci disperiamo perché  tra qualche mese ci sarà la fatidica “prova costume”,  non molto lontano dalle nostre luccicanti spiagge, persone come noi muoiono perché non hanno di che sfamarsi. Persone malnutrite che non riescono ad assicurarsi nemmeno un pasto al giorno.

Per chi non soffre la fame come sofferenza fisica è difficile capire come si possa morire proprio di fame. Qui non si muore di fame, anzi si può morire di malattie connesse all’obesità, all’aver mangiato troppo e male.

La fame, per chi non la vive e per chi come me cerca di raccontarla, è solo una sensazione.

Una sensazione con scadenza (a tempo) e con un bipolare piacere (dal piacere bipolare).

La nascita della sensazione della fame, posizionata in un determinato momento, genera un non piacere, un piacere mancato da compensare il prima possibile.  Il prima possibile riflette le nostre capacità, fisiche ed economiche, nel riuscire a placare la sensazione di fame mangiando fino al piacere della sazietà, ma anche oltre. Ho fame, cerco ed ottengo il cibo. La mia vita continua. Questa è una delle tante e belle “certezze garantite” dal nostro sistema.

Ecco, è proprio questa “certezza garantita” che manca nei paesi in via di sviluppo ma cha attualmente sta interessando anche il mondo ricco.

(Io non so cosa si possa provare nell’avere la certezza che non ci siano certezze. Vorrei avere il potere di fare quello che penso per cercare di cambiare il mondo. Ebbene si, con presunzione dico:

io voglio cambiare il mondo perché questo che ci hanno dato oggi proprio non mi piace.)

Domenica abbiamo parlato di fame, abbiamo parlato di aiuti veri ma anche di “food for a war”. E se nei prossimi acquisti cercherò di leggere bene l’etichetta, non lo farò solo per la “linea” ma lo farò per capire da dove proviene ciò che sto comprando. Perché se è giusto esportare ed importare, è anche ingiusto importare un prodotto in un’Italia che lo produce. Non sarebbe più giusto dare a chi non ha?

Non è un pensiero da quattro soldi ricopiato e ben stampato, esistono realtà che basano le loro politiche proprio sul “give it to doesn’t have”  e secondo me è una cosa buona.  Semplice e buona. 

Assunta Giannico

 

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Un detto abruzzese per iniziare a riflettere

Mercoledì 1 Aprile 2009

 

 

Mi ritrovo, dopo la lezione, ad avvertire non solo un senso d’impotenza, ma anche una rabbia crescente. Una rabbia che nasce dall’ingiustizia. Non mi capacito di come sia possibile che nascere in un determinato paese possa implicare dover lottare una vita per avere quello che è un bisogno primario e che dovrebbe essere garantito a tutti, il cibo. E soprattutto non riesco ad accettare il continuo approcciarsi alle realtà presenti nell’Africa con lo spirito dell’occidentale che tutto sa e tutto può. È una cosa che proprio non mi va giù.

La situazione economica attuale, nel nostro paese, necessita di una strategia da mettere in atto per fronteggiarla ma, proprio noi occidentali, preferiamo negare l’evidenza: “La crisi è passeggera”, si sente dai nostri politici, “Fra due anni ne usciremo fuori”. Tutte menzogne. Nessuno si preoccupa di dirci la verità, nessuno s’interessa di spiegarci il funzionamento del mercato, del potere che un consumatore ha su di esso. Non siamo tutti economi, sono la prima che davanti ad un telegiornale che tratta questi argomenti fa fatica a capire di cosa stanno parlando. A chi rivolgersi per tentare di capire? I governi dei vari paesi metteranno in moto dei meccanismi per fronteggiare la crisi ma noi, o meglio io, più che subirli e non capirli minimamente cosa posso e devo fare?

In una situazione che ai miei occhi pare molto confusa mi chiedo come i paesi del Nord del mondo vogliano agire nei confronti dei Paesi in Via di Sviluppo. Come pensano di aiutarli anche in questo momento di forte crisi economica?

Mi fa riflettere quanto detto nella terza lezione del corso: per due anni sono stati spediti aiuti alimentari ai più poveri di alcuni paesi dell’Africa e le organizzazioni umanitarie non si erano rese conto che il cibo finiva nelle mani dei soldati. Sono rimasta senza parole. In questo momento di crisi non possiamo e non dobbiamo permettere errori grossolani di questo genere.

Quanto detto mi fa pensare che in realtà anche nelle organizzazioni umanitarie ci sia una falla dovuta alla solita lente ottica da occidentale. Noi occidentali tendiamo per natura all’individualismo. Preferiamo fare da soli che collaborare. Collaborare significa mettersi sullo stesso piano dell’altro, esprimere le proprie idee ed i propri obiettivi, accettare le critiche e farne, migliorarsi attraverso di esse e soprattutto trovare un accordo. Sarò polemica e me ne scuso, ma sono abituata per via della mia formazione a guardare un problema, una situazione od una persona da molteplici punti di vista. E, soprattutto, sono abituata a collaborare. Non si può pretendere di sapere sempre tutto su tutto. Non si deve e non si può pensare di conoscere una realtà in quanto essa ha mille e più sfaccettature che forse mai riusciremo a conoscere. Cadere in questo errore ci può stare, sbagliare è umano, ma perseverare è sciocco oltre che diabolico. Vorrei chiudere con un detto abruzzese: due teste pensano meglio di una. Sagge parole! Mettiamole in pratica.

Diana De Iuliis

 

 

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IL DIRITTO AL CIBO. UN DIRITTO UMANO FONDAMENTALE. UN SOGNO.

Mercoledì 1 Aprile 2009

 

Il diritto internazionale riconosce il diritto al cibo come uno dei diritti umani fondamentali, cioè quei diritti che attengono all’uomo in quanto tale, senza distinzione di razza, sesso, religione o altro fattore discriminante, dunque universali. Nonostante l’impegno-dovere assunto dai Governi, attraverso la stipula dei principali trattati sui diritti umani (la Dichiarazione Universale sui diritti dell’uomo del 1948, il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali del 1966, solo per citarne alcuni), di intraprendere tutte le azioni necessarie a rendere effettivo tale diritto, oggi più di un miliardo di persone, circa il 15% della popolazione mondiale, risulta essere ‘affamato’, cioè cade in forme di malattia dovute a carenza di alimentazione. Oltre a dover impensierire gli Stati, questo dato dovrebbe suscitare una reazione anche in tutti noi. Riuscire a vincere la fame nel mondo, infatti, costituisce,  senza alcun dubbio, un dovere morale generale e, in ultima analisi, un sogno che dovrebbe alimentare il nostro vivere quotidiano, spingendoci a scendere in campo e sporcarci le mani. Perché un grande sogno, come questo, necessita sicuramente di grandi idee, dei mezzi per realizzarlo, di impegno, di fede, ma anche e soprattutto dell’investimento totale delle nostre anime, che vuol dire incontro diretto con la realtà che vogliamo cambiare. Una realtà che ha gli occhi scavati e il corpo avvizzito di un bambino africano che vive nell’immondizia. Qualcosa di devastante, che fa paura. Ma la storia ci insegna che il mondo non si cambia senza coraggio.

Sara Guazzaroni

 

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Le “Afriche”…tra fascino e sfruttamento

Giovedì 19 Marzo 2009

Immagini, pensieri e ancora immagini affollano la mia mente. E come in un sogno, sono già li, nella “mia” Africa tanto attesa e desiderata. E lungo la strada che non c’è  vedo un bambino che va a scuola,  in mano non ha un quaderno, sulle sue  spalle non c’è lo zaino griffato dell’ultima pubblicità apparsa in  tv. Il bambino ha in mano un mattone di cemento… è la sua sedia. Niente penne, né colori e tantomeno quaderni, astucci logati e libri . Sarà per la mancanza di tutto ciò che la memoria li è più forte? Forse.

Il bambino che entra nella scuola costruita con materiali di fortuna è la persona che questa mattina ho di fronte, Don Daniel Ngandu. E’ cresciuto ma il suo sorriso è rimasto contagioso, proprio come quello dei bambini.  Oggi il suo compito è quello di farci capire la complessità di un continente vasto e problematico come l’Africa. O meglio, le Afriche. Ebbene si, non ha senso parlare di una sola Africa, visto che già ad un visione superficiale scopriamo che ne esistono almeno quattro:

Africa del nord, l’Africa dell’ovest, l’Africa  Subsahariana e il Sud Africa. Se a queste Afriche aggiungiamo tutte quelle che si differenziano e si distinguono per tradizioni e lingue, il risultato finale, in un mondo perfetto potrebbe essere a dir poco stupefacente,  sommersi da suoni, danze, colori e odori, leggende, superstizioni, a volte assurde e cattive, tribù e capi.

Ma il nostro non è un mondo perfetto, così succede che una regione dell’Africa come il Congo, ricchissima di titano, oro, cobalto, rame, petrolio e acqua, venga usata esclusivamente per uno scopo: “sfruttamento”.

Non ho il potere per criticare e cambiare i flussi che muovono le grandi potenze, però ho gli occhi per vedere quello che ci circonda e capire che c’è qualcosa di sbagliato dagli inizi.  Non so spiegare perché un popolo debba essere migliore di un altro a tal punto da poterlo sopraffare e sfruttare. Così come non so spiegare filosofie o religioni che siano, che ritengono l’uomo un essere eterno nell’aldilà ma  estremamente  fragile, debole e fallimentare nella vita passeggera sulla Terra. Chi decide quali sono le idee comuni sulla qualità della vita?  E chi decide di imporre queste  idee su quelle degli altri?  Perché i diritti degli uomini di vivere con dignità devono essere legati allo stanziamento  dei vari fondi?

So che le mie sono domande a cui non avrò mai le giuste risposte, e non mi rammarico per questo. Ho il mio progetto da portare avanti che non cambierà le sorti di uno Stato, da sola non riuscirò a salvare l’Africa ma so che nel mio piccolo, anzi piccolissimo rispetto alla vastità dell’Africa che, riuscirò a far sorridere un bambino, magari per poco, ma credetemi è molto meglio di niente o peggio, del “lo farò un giorno”.  

Assunta Giannico

 

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… sofermiamoci solo per un attimo ….

Giovedì 12 Marzo 2009

 

 

Nella nostra frenetica quotidianità soffermiamoci solo per un attimo, sospendiamo la nostra “lotta” contro il tempo. Utilizziamo la fantasia,facciamo uso della creatività per pensare a un mondo bizzarro, si proprio a lui, il nostro mondo pazzo, quello del divario tra un Nord ricco e dovizioso e un Sud che pur vivendo tra mille difficoltà economiche, presenta ricchezze culturali di incredibile importanza.

Cerchiamo di capire il mondo nella sua globalità, di affrontare il tema del circolo vizioso che lega povertà, degrado ambientale e cattiva salute: un circolo vizioso che in Africa, più che in qualsiasi altro posto sulla terra sono convinta,assume dimensioni allarmanti.

Finalmente domenica 1Marzo ho potuto iniziare a vivere e credere in un desiderio che fino al giorno prima credevo fosse irrealizzabile.

Mi sono trovata, con un gruppo di ragazzi che,come me, hanno a cuore il mio stesso obbiettivo: quello di iniziare, portare avanti e soprattutto concretizzare e godere in tutta la sua specialità, il sogno di una vita.

Voglio poter crescere in questo settore della solidarietà,essere capace di relazionarmi con loro, arricchirmi ogni giorno di più di esperienze nuove che difficilmente si possono dimenticare…poter dare! Poter tornare con la gioia che sono sicura mi lascerà dentro e porterò sempre con me e con la voglia di tornarci e poter ringraziare anch’io l’AFRICA.

Ho proprio il desiderio di poter provare tutte quelle belle sensazioni ed emozioni che hanno provato i ragazzi che hanno vissuto questa esperienza. Stando qua,di certo,non posso provare.

Nora Pili

 

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I giovani si interrogano, riflettono e…

Sabato 7 Marzo 2009

 

Quando ho presentato la domanda per partecipare a questo corso non pensavo, forse con un pò di cinismo, che un itinerario volto ad educare alla solidarietà giovani laureati potesse riscuotere realmente grande successo. Mi sbagliavo. I trentatre ragazzi che, come me, si sono presentati alla selezione mi hanno ricordato che esiste una nutrita parte del mondo giovanile che si interroga e riflette, che non sta ferma a guardare, ma si impegna quotidianamente per fare qualcosa di buono.

Il corso di formazione ha preso avvio con una prima lezione sul tema del diritto alla salute. Il nostro relatore, Mons. Jean Marie Mpendawatu, esperto di politiche sanitarie nei Paesi in via di sviluppo, mi ha colpito molto, non solo per le sue preziose parole ma anche per il suo sorriso, emblema di quel sentire tipicamente africano che porta ad affrontare la realtà, spesso drammatica soprattutto in un continente come l’Africa, con un’incredibile e insopprimibile gioia di vivere.

Come ultima considerazione vorrei citare le parole con cui il Colonnello Italo Governatori, Presidente dell’Associazione LumbeLumbe ONLUS, ci ha congedati dal corso: "….scontrarsi e incontrarsi con la povertà ti dà un senso nuovo". Penso che il punto nodale, il motivo principale che mi ha spinto verso questo progetto risieda proprio in questo: trovare un senso.

Sara Guazzaroni

 

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la matematica ci aiuta a capire meglio

Sabato 7 Marzo 2009

  

 

Nella prima lezione del corso tenuto dal Monsignor Jean Marie Pendawatu sono stati molteplici gli argomenti trattati. Uno, più di tutti, mi ha colpita ed ha suscitato in me molte riflessioni: la diversità fra la medicina dei paesi del Nord e quelli del Sud.

Nei nostri paesi un comune e banale raffreddore non spaventa, né preoccupa più al giorno d’oggi. Nessuno di noi ha difficoltà a contattare un medico, farsi prescrivere dei farmaci appropriati alla patologia presentata e curarsi. Nei casi più gravi, abbiamo la possibilità di correre in ospedale! Tutte cose che facciamo senza rifletterci perché le diamo per scontate.

Nei nostri paesi abbiamo quel tipo di medicina definita dei “bisogni”. Tutti devoti al culto del corpo, alla ricerca della vita eterna, al bisogno costante di tendere  all’infinito e poi ancora oltre. Tutto questo ci porta a non riflettere sul dato oggettivo che non tutti hanno la fortuna di nascere in un luogo in cui la salute, in senso lato, è assicurata. Grazie alle nuove tecnologie, alle nuove scoperte in campo medico e alla sperimentazione di farmaci e, soprattutto, allo sviluppo di nuove branche della medicina, si perde di vista la cura del sintomo, della patologia.

Nel Sud del mondo la medicina dei desideri è impensabile. In paesi in cui la salute non viene tutelata esiste solo la medicina del bisogno. Non è la pigrizia che spinge i medici di questi paesi a non avvalersi di tecnologie all’avanguardia o di farmaci di ultima generazione. È la mancanza di essi il vero problema! Le strutture mediche sono poche e attrezzate male, le figure professionali e i mezzi tecnologici più elementari non sono disponibili, i fondi per la sanità pubblica sono pari a zero.

Anche l’effettuare una vaccinazione a scopo preventivo risulta un’azione mastodontica: non ci sono i vaccini, non c’è un luogo in cui conservarli, non c’è il personale qualificato per somministrarli.

Questa è la cruda realtà!

Chiediamoci quanto è facile da noi fare un vaccino. Ormai è diventato una routine! Possiamo anche scegliere se fare o no il vaccino contro l’influenza!

Cosa dire allora? Che siamo fortunati.

Cosa siamo chiamati a fare? A riflettere.

Domandarsi il perché delle cose che accadono nel mondo, contestualizzare quanto apprendiamo, riflettere su quanto abbiamo noi e quanto manca agli altri e domandarsi cosa possiamo fare per loro.

Dopo la lezione due parole mi giravano per la mente, senza tregua: diversità e differenza. Vorrei provare a spiegare la prima con un esempio. Pensiamo alla matematica e a una semplice sottrazione: 36- 4= 32. C’è un valore più grande da cui viene sottratto un valore più piccolo.

Se questo esempio lo applicassimo sugli esseri umani dovremmo dire che il signor Tizio (36) vale più del signor Caio (4). E che quindi tra di loro c’è una grande differenza. Ma da chi viene stabilità questa differenza? Dalla cultura? Dal paese in cui si è nati o dalle possibilità economiche di cui si dispone?

Ecco che il concetto di differenza deve essere sostituito con quello di diversità.

Siamo tutti diversi, ognuno ha le sue caratteristiche, i suoi valori, la propria cultura, la propria lingua. Ed alla luce di ciò, non possiamo pensare che l’essere diversi per questi aspetti ci permetta in qualche modo di ritenerci superiori agli altri, imponendo loro il nostro modo di pensare, di credere o di fare. Ogni realtà, per essere compresa realmente, fino in fondo, deve essere letta con gli occhi di chi la vive quotidianamente, senza pregiudizi o preconcetti e senza ritenersi i detentori di un sapere unico e indiscusso. Solo così, potremo dire di essere entrati in contatto con l’altro.

Diana De Iuliis

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VILLA SANTA MARIA, SI RIPARTE…

Sabato 7 Marzo 2009

 

 

Secondo appuntamento a Villa Santa Maria con il Corso di Orientamento alla Solidarietà. Venti gli iscritti che domenica scorsa si sono dati appuntamento presso le sede della Comunità Montana Valsangro per inaugurare il lungo percorso che li porterà ad accedere alle tanto ambite borse di studio, consistenti in un viaggio in un paese in via di sviluppo.

Hanno presenziato alla prima lezione, oltre al presidente della Comunità Montana Arturo Scopino e al presidente dell’associazione “LumbeLumbe” Italo Governatori, monsignor Jean Marie Mpendawatu che ha intrattenuto la sua platea con un interessante excursus su quelle che sono le problematiche, soprattutto dal punto di vista igienico e sanitario, dei paesi più disagiati.

Otto ore di lezione sono scivolate via tra testimonianze, sorrisi, presentazioni e tutti quei buoni propositi utili alla costruzione di un’atmosfera gioviale e rilassata che forse stride, e striderà nei prossimi incontri, con la profondità e il calibro delle tematiche trattate.

Hanno partecipato all’evento, inoltre, alcuni dei ragazzi che, l’anno scorso, hanno avuto la possibilità di effettuare un provante e educativo viaggio in Congo e in Angola in seguito alla prima edizione del corso.

“Ricordo ancora i vostri volti quando vi ho accolto al vostro ritorno”. Così ha esordito Arturo Scopino rivolgendosi ai ‘ragazzi della passata esperienza. “ Eravate provati, stanchi, ma anche molto felici. Non potrò mai dimenticare la serenità impressa nei vostri lineamenti in quella giornata che non scorderò mai”.

Parole importanti che raccontano con semplicità il culmine delle emozioni che i volontari del 2008 hanno avuto il privilegio di provare. Bene…io sono una di loro e onestamente vi dico che non dimenticherò mai le sensazioni che hanno scosso l’anno più bello della mia vita.

Ricordo ancora gli odori di un paese così lontano ma che porto ancora nel cuore, le voci, o meglio le urla, di tutti quei bambini increduli della nostra presenza e che, con molta probabilità, ci stanno ancora aspettando, i suoni melodiosi delle serate passate senza elettricità (un bene essenziale per noi occidentali!), i balli nei quali ci siamo dilettati (facendo delle pessime figure!) con i seminaristi….insomma potrei andare avanti per ore parlando di Congo, d’Africa, della mia vita.

Noi ci siamo limitati a portare un sorriso. Forse è stato l’unico mezzo che ci ha permesso di entrare in una terra sconosciuta e di pervadere i cuori di chi fino a quel momento non conoscevamo. Un SORRISO che porteremo con gioia e umiltà per sempre con noi.

Barbara Del fallo         

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