Valsangro

la lunga fila dei respinti.

Venerdì 11 Settembre 2009

Questi i risultati dei test di ammissione alle classi terza e quarta della scuola Lasalle: 99 domande e 3 ammessi, 115 richieste, 5 selezionati.

Zwavi: un piccolo cartello comunica che il giorno dopo verranno aperte le iscrizione alla prima classe dell’asilo. L’orario segnato è alle 9, ma alle 9 e 15 si chiudono i cancelli.

Forse verrebbe da pensare che le scuole dei missionari, fratelli cristiani a Meki e suore salesiane a Zwai, abbiano aule piccole, ma non è così: la scuola di Meki ha in totale, divisi nelle 12 classi del sistema etiopico, 1580 studenti, la classe d’asilo di Zwai ha 60-70 bambini.

Alle 9 di sera, davanti all’asilo c’era chi prendeva posto per essere il primo della fila dopo una notte passata in coda; 500 le richieste quando hanno chiuso i cancelli.

Studiare in una scuola come la Lasalle di Meki significa che, dopo duri sacrifici (si studia dalle 8 alle 5 del pomeriggio, con una pausa pranzo di un’ora e mezza, dove chi non ha i mezzi non mangia), si sarà ammessi all’università.

Qui in Etiopia le classi sono 12, c’è un esame tra la classe 10a e l’11a, due anni di preparazione per l’università (11 e 12), poi un esame di ammissione. Chi lo passa va all’università e la possibilità di scelta della facoltà dipende dal voto ottenuto: migliore il voto, più ampia la scelta.

135 - 133, 130 - 129: questi i risultati degli esami di ammissione alla classe 11a e all’università: praticamente la totalità degli studenti.

Qui l’università significa lavoro, significa sicurezza e realizzazione. E’ gratuita, o meglio: si paga a rate quando si lavorerà, terminati gli studi.

Chi non entra al Lasalle o all’asilo delle salesiane di Zwai andrà in una scuola governativa, dove la certezza di arrivare all’università non c’è.

Ma allora, quei tre ammessi alla terza, quei 5 ammessi alla quarta, i bambini che entrano nell’asilo?

Nel caso dell’asilo le suore sanno che i bambini che entrano nelle loro scuole verranno seguiti fino all’università, e vogliono scegliere quelli che più ne hanno bisogno. Quei 500 che hanno richiesto l’ammissione per i propri figli sono stati sottoposti ad un’intervista, volta a conoscerne la vita economica e sociale: si darà precedenza ai più bisognosi.

Nel caso del Lasalle, invece, sono quei ragazzi cui la scuola può permettersi di pagare interamente la retta; una manciata rispetto ai 1580. Quel 50% circa di studenti interamente paganti copre le spese anche per quelli che non possono. I bambini sostenuti a distanza sono circa una ventina, e il direttore, Belayneh, bussa di porta in porta per trovare dei fondi per avere più studenti, perché qualcuno non adotti il singolo ragazzo, ma la scuola: la quota mensile andrebbe a coprire le spese dei salari, dei materiali…

Ragionando con un occhio al presente, uno al futuro e i piedi piantati nella certezza della provvidenza, stanno costruendo un ostello per 60 ragazze.

Se prima c’era diffidenza nei confronti delle scuole, che toglievano forza lavoro tanto che Suor Elisa, salesiana, ci raccontava di come all’inizio i bambini dopo la scuola facevano dei lavoretti per i quali ricevevano dei soldi. La loro presenza a scuola era motivata dal denaro che portavano in casa. Perché i lavoretti? perché denaro in cambio di nulla non è educativo. Ma se prima era così ora lunghe file di persone chiedono una possibilità per i propri figli.

La speranza è che le generazioni che stanno nascendo, andando a sostituire quella al governo, lavoreranno sulla propria esperienza.

Emanuele Ferrarini:

 

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la lunga fila dei respinti.

Venerdì 11 Settembre 2009

Questi i risultati dei test di ammissione alle classi terza e quarta della scuola Lasalle: 99 domande e 3 ammessi, 115 richieste, 5 selezionati.

Zwavi: un piccolo cartello comunica che il giorno dopo verranno aperte le iscrizione alla prima classe dell’asilo. L’orario segnato è alle 9, ma alle 9 e 15 si chiudono i cancelli.

Forse verrebbe da pensare che le scuole dei missionari, fratelli cristiani a Meki e suore salesiane a Zwai, abbiano aule piccole, ma non è così: la scuola di Meki ha in totale, divisi nelle 12 classi del sistema etiopico, 1580 studenti, la classe d’asilo di Zwai ha 60-70 bambini.

Alle 9 di sera, davanti all’asilo c’era chi prendeva posto per essere il primo della fila dopo una notte passata in coda; 500 le richieste quando hanno chiuso i cancelli.

Studiare in una scuola come la Lasalle di Meki significa che, dopo duri sacrifici (si studia dalle 8 alle 5 del pomeriggio, con una pausa pranzo di un’ora e mezza, dove chi non ha i mezzi non mangia), si sarà ammessi all’università.

Qui in Etiopia le classi sono 12, c’è un esame tra la classe 10a e l’11a, due anni di preparazione per l’università (11 e 12), poi un esame di ammissione. Chi lo passa va all’università e la possibilità di scelta della facoltà dipende dal voto ottenuto: migliore il voto, più ampia la scelta.

135 - 133, 130 - 129: questi i risultati degli esami di ammissione alla classe 11a e all’università: praticamente la totalità degli studenti.

Qui l’università significa lavoro, significa sicurezza e realizzazione. E’ gratuita, o meglio: si paga a rate quando si lavorerà, terminati gli studi.

Chi non entra al Lasalle o all’asilo delle salesiane di Zwai andrà in una scuola governativa, dove la certezza di arrivare all’università non c’è.

Ma allora, quei tre ammessi alla terza, quei 5 ammessi alla quarta, i bambini che entrano nell’asilo?

Nel caso dell’asilo le suore sanno che i bambini che entrano nelle loro scuole verranno seguiti fino all’università, e vogliono scegliere quelli che più ne hanno bisogno. Quei 500 che hanno richiesto l’ammissione per i propri figli sono stati sottoposti ad un’intervista, volta a conoscerne la vita economica e sociale: si darà precedenza ai più bisognosi.

Nel caso del Lasalle, invece, sono quei ragazzi cui la scuola può permettersi di pagare interamente la retta; una manciata rispetto ai 1580. Quel 50% circa di studenti interamente paganti copre le spese anche per quelli che non possono. I bambini sostenuti a distanza sono circa una ventina, e il direttore, Belayneh, bussa di porta in porta per trovare dei fondi per avere più studenti, perché qualcuno non adotti il singolo ragazzo, ma la scuola: la quota mensile andrebbe a coprire le spese dei salari, dei materiali…

Ragionando con un occhio al presente, uno al futuro e i piedi piantati nella certezza della provvidenza, stanno costruendo un ostello per 60 ragazze.

Se prima c’era diffidenza nei confronti delle scuole, che toglievano forza lavoro tanto che Suor Elisa, salesiana, ci raccontava di come all’inizio i bambini dopo la scuola facevano dei lavoretti per i quali ricevevano dei soldi. La loro presenza a scuola era motivata dal denaro che portavano in casa. Perché i lavoretti? perché denaro in cambio di nulla non è educativo. Ma se prima era così ora lunghe file di persone chiedono una possibilità per i propri figli.

La speranza è che le generazioni che stanno nascendo, andando a sostituire quella al governo, lavoreranno sulla propria esperienza.

Emanuele Ferrarini:

 

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Meki 3 settembre 2009

Venerdì 11 Settembre 2009

Sveglia alle 7:00…L’aria è un po’ tesa a causa dei vari problemi che abbiamo riscontrato in questi giorni.

Verso le 9:00, accompagnati da Padre Giovanni Monti, abbiamo incontrato il direttore del settore educativo del vicariato di cui siamo "ospiti". Questa persona, nonostante varie ed allettanti opportunità di lavoro ricevute dopo aver studiato in America, è tornato a Meki, nel suo paese, un po’ per sfida, per impegnarsi a dare un’opportunità agli studenti più volenterosi di riuscire a realizzarsi così come lui stesso ha fatto.

In base alle statistiche, ci ha spiegato che su 130 iscritti 129 alunni riescono a portare a termine la propria carriera scolastica con successo.

Quindi ci ha fatto visitare le varie strutture adibite a laboratori di chimica, fisica, biologia, disegno tecnico, informatica, biblioteca…

Tutte aule frequentate da circa 100 studenti che si dividono in gruppi di 3 o 4 persone per attrezzatura per usufruire dei servizi messi a disposizione della struttura.

Poi siamo andati a visitare l’orfanotrofio finanziato da un progetto spagnolo. Qui abbiamo trovato un clima sereno, un ambiente ordinato, pulito, sano e molto organizzato. C’erano anche una decina di bimbi molto molto piccoli con cui abbiamo potuto giocare.

Nel pomeriggio abbiamo visitato gli uffici amministrativi della diocesi, finanziati dalla Caritas austriaca, ed anche qui abbiamo constatato un’ottima organizzazione.

Poi ci siamo spostati un po’ anche nelle strutture interne del vicariato: all’asilo e al seminario. Nel visitarli abbiamo deciso di dare una "mano di pittura" alle pareti di due aule dell’asilo e di riparare alcuni giochi rotti nel giardino con le offerte donate dagli impiegati delle poste di Castiglion Messer Marino (CH).

In seguito, guidati dal suono di alcuni canti, ci siamo recati in chiesa, dove due suore ed alcuni bambini stavano facendo le prove di canto e ballo per la messa di domenica, a cui spero vivamente di poter partecipare.

Luisa D’Agostino

 

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A piccoli passi

Venerdì 11 Settembre 2009

Quando vedi che c’è così poca giustizia sociale la domanda che ti poni subito è: "cosa fare?"

E’ forse a questo punto che inizia la confusione. I problemi in Etiopia sono molti. L’Africa, poi, è immensa.

Il rischio che si corre è quello di lasciarsi andare al senso di impotenza lasciando svanire il fuoco che brucia dentro: quel fuoco vorrebbe che ogni persona sulla terra vedesse riconosciuti propri diritti umani.

Per fortuna Paolo Caneva, missionario laico da 5 anni in Etiopia, ci indica un sentiero che ci restituisce la nostra possibilità di azione: la giustizia sociale si costruisce avendo coscienza di chi si è, di dove e come si vive. Avendo cura di quel bene immenso che è l’acqua, consumando meno e più attentamente, liberandoci dalle dipendenze quotidiane che il "padrone-televisione" ci impone, vivendo più semplicemente  e lentamente. In questi "piccoli" passi c’è tutta la potenza necessaria per camminare accanto a questi popoli, meravigliosi nonostante la difficoltà in cui vivono.

E ciò che è davvero importante è che possiamo farlo tutti, nel posto in cui viviamo, ogni giorno.

Fabiola Abbati

 

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Ragazze e ragazzi di Yephorena

Martedì 1 Settembre 2009

 

 

Caldo, pioggia e ancora caldo durante la stupenda passeggiata che dai nostri alloggi ci ha portati a conoscere i ragazzi del villaggio di Yephorena. Il paesaggio cambia continuamente mentre si sale sulle colline. La terra rossa impregnata d’acqua, il fiume che scorre tumultuoso ed infine un inaspettato bosco. Al nostro passaggio i bambini escono dalle loro capanne e ci salutano regalandoci luminosi sorrisi. Durante il percorso incontriamo gruppi di donne in marcia una dietro l’altra con i testa carichi pesantissimi e ci stupiamo di come non sembrino per niente affaticate, mentre noi sudiamo affannati sotto il misero peso dei nostri zainetti da turisti. Appena arrivati a destinazione udiamo subito il suono dei djambe’ e le voci di un coro. Entriamo nel cancello di lamiera e ci avviamo verso un edificio di terra composto da una sola stanza arredata di poche panche. Un gruppo di ragazze e ragazzi ci accoglie con un canto, anche noi cantiamo ma il risultato è decisamente ridicolo in confronto alla loro performance. Prendiamo posto di fronte e tutti visibilmente imbarazzati cominciamo a presentarci uno alla volta. Le ragazze sono più timide e ci regalano solo brevi frasi sussurrate, nascondendosi, poi, il viso tra le mani o dietro la schiena della loro vicina. Grazie alla presenza di Paolo e di sua moglie Shitaye, che traduce tutto quello che viene detto, l’atmosfera si ammorbidisce ed iniziamo a porci delle domande ed a fare delle riflessioni. Dal canto nostro cerchiamo di spiegare i motivi che ci hanno spinti ad intraprendere questa esperienza, descrivendo la vita alienante che si svolge in occidente dove, pur avendo a disposizione ogni bene di consumo, la gente è profondamente infelice e frustrata, al contrario degli etiopi che, sebbene vivano una vita stretta nella morsa della povertà, sembrano sereni e contenti di quel poco che posseggono. A tal proposito uno dei ragazzi del villaggio ci dice che la felicità non può far parte della vita terrena ma solo di quella eterna. Questa è la loro speranza. Quello che emerge dallo scambio di domande ed opinioni con questo gruppo di giovani è la consapevolezza che l’istruzione è l’unica via di riscatto. Solo frequentando la scuola e l’università questi ragazzi avranno la possibilità di migliorare la loro condizione e quella della società in cui vivono. L’istruzione però da queste parti è un lusso concesso a pochi. Fin da piccoli i bambini devono aiutare i loro genitori nel lavoro dei campi e a pascolare le greggi. In questo modo resta ben poco tempo da dedicare allo studio, inoltre la mancanza di corrente elettrica rende impossibile studiare durante le ore serali, le uniche che potrebbero essere dedicate all’apprendimento. Alla domanda "come trascorrete il vostro tempo libero?" la risposta unanime è "studiando". E pensare che noi studenti italiani viviamo gli anni di scuola come una costrizione, un peso, un’attività che ci toglie il tempo del divertimento. Un altro aspetto interessante che emerge da questo confronto è che oggi, al contrario di quanto si possa immagine, un ragazzi e una ragazza possono sposarsi scegliendo liberamente il proprio compagno. il matrimonio non è più soltanto un contratto tra due famiglie che per ragioni prettamente economiche decidono di stabilire un legame di parentela, ora due persone che si vogliono posso unirsi. Il consenso delle famiglie è sempre necessario, ma viene concesso senza particolari problemi. Quando poi chiediamo se c’è parità tra uomo e donna, la risposta è imbarazzante: mentre i ragazzi affermano di si, le ragazze abbassano gli occhi dietro un velo di silenzio. sarà vero? I meccanismi sociali di questa regione dell’Etiopia sono affascinanti, ma talvolta contraddittori e difficili da comprendere per chi come noi viene ad osservarli con occhi occidentali. Tuttavia queste poche ore trascorse insieme ai nostri coetanei locali ci hanno insegnato più di mille libri, ma il bello dell’Africa è che quando si crede di aver capito come funziona questa parte di mondo, una semplice frase o un gesto casuale fanno crollare le nostre certezze e allora rimetti tutto in discussione e ricominci da capo.

Marialaura Di Donna

 

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Un chicco di caffè per ogni goccia di pioggia…

Lunedì 31 Agosto 2009

 

Sono mani sapienti quelle che versano il caffè. Ripetono gesti antichi quando versano la polvere di caffè e il sale nella caffettiera di terracotta che sta cuocendo sul fuoco. Mentre la polvere nera scende nella bocca del vaso la pioggia, fuori, continua a cadere. Stavamo tornando dalla casa di Sisaye, l’insegnante che ci aveva invitato a prendere il caffè nella sua abitazione, un tukul, o ‘kogio-bet’ (casa circolare), distante circa mezz’ora dalla Salam Bet, la casa che ci ospita, quando la pioggia ci ha sorpreso cadendo così tanto da costringerci a chiedere riparo in un’altra abitazione. Il padrone di casa è un uomo che ha, a detta di Paolo, tra i 20 e 25 anni; inutile chiederlo a lui, perché qui non tengono conto del tempo che scorre. Anche i suoi gesti e i suoi occhi riflettono tempi antichi, una maturità che mi aveva fatto credere che fosse molto più vecchio. Ci fa entrare, aprendo una porta fatta coi pali che copre l’entrata solo fino a metà altezza, per permettere alla luce di entrare. Poca,ma sufficiente per distinguere, dalla nostra panca a ridosso della parete, che questa abitazione è, o meglio è stata, più curata di quella di Sisay: se quella aveva la parete di divisione del tokul, che divide in due l’area (dove dormono, mangiano e cucinano e la stalla), realizzata con dei teli di stoffa, questa ha una parete solida; se quella aveva la parete lasciata color terra, questa ha la parete lasciata color terra per un pezzo e poi pitturata di bianco. Ma le stuoie sono più vecchie, il tetto ha dei buchi e tutta l’abitazione trasuda un’eleganza passata. Non vi sono parole, solo il pronto riattizzare il fuoco, il soffiare sulle braci, il preparare il caffè, lasciato poi fare alla moglie, mentre lui va a prendere la legna sotto alla pioggia: si vede il piacere che c’è nell’avere degli ospiti e qualcosa da offrire. Dietro alle gambe della moglie si nasconde una bambina, impaurita dal nostro silenzio e dal nostro biancore. Il caffè è pronto, ci viene servito su un tavolino che l’uomo è uscito a prendere fuori, sotto la pioggia. La donna entra nell’altra parte della casa e ne esce con dei piselli tostati, per poi ritirarsi in un angolo buio: deve allattare. Fuori spiove. Mentre beviamo - a piccoli sorsi! - il caffè salato, masticando quegli ottimi piselli, sono colpito dalla lentezza dei gesti, dall’umiltà di offrire ciò che si ha e dalla dignità che c’è sui loro volti e sulle storie che quei volti hanno da raccontare. Storie che da noi non ho mai letto. Storie che qui, per una goccia di pioggia, sono offerte insieme al caffè.

Emanuele Ferrarini

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Riflessione sul concetto di solidarietà

Sabato 29 Agosto 2009

 

Per il nostro primo giorno di permanenza a Emdibir, Paolo ha organizzato presso la Salam Bet dove siamo ospitati un incontro di benvenuto con il vescovo della diocesi.

Monsignore Musie Ghebreghiorghis si presenta subito in modo affabile, come forse non mi sarei aspettata, tanto che il clima formale che si era creato ad inizio incontro ben presto lascia il posto ad una chiacchierata “tra amici”, accompagnata da orzo tostato ed ottimo caffè.

Il nostro interlocutore è disponibile a parlare (in un italiano impeccabile!) di qualsiasi tematica ci interessi, spaziando tra gli argomenti  più disparati quali la religione, la politica, le tradizioni locali, l’agricoltura e problemi quali l’hiv e la povertà del paese.

Particolarmente interessante è stata l’interpretazione del volontariato come forma di solidarietà: a suo avviso infatti anche un’esperienza di breve durata come la nostra ha di certo un grandissimo valore per la gente del posto.

Sono rimasta molto colpita da questa riflessione dal momento che più volte mi sono chiesta quale sia effettivamente il vantaggio per le persone del posto di avere per qualche giorno qualcuno che arriva (magari porta anche un po’ di scompiglio!) e poi se ne va…la ricchezza che il volontario porta a casa da un esperienza come quella che stiamo vivendo qui in Etiopia è indiscussa…ma chi rimane?

Ebbene, secondo Musie qualsiasi esperienza di volontariato può essere intesa come una forma di solidarietà che trasmette cultura, educazione e progresso, anche se concentrati in poco tempo. Ciò che i volontari portano alle persone che incontrano è un modo migliore di vivere, un punto di vista nuovo e alterativo.

Non avevo mai pensato al mio ruolo di volontaria in questi termini e se da un lato questo mi fa percepire un po’ di più la responsabilità legata alla nostra presenza qui, dall’altro mi sento quasi sollevata nell’aver trovato una risposta così sincera e naturale a quello che a me sembrava un interrogativo quasi sconveniente.

Insomma, sono rimasta piacevolmente sorpresa dall’incontro…. e siamo solo al primo giorno..chissà quante altre persone interessanti incontreremo nel corso della nostra permanenza qui….bhe’, si sa, il tempo in Africa ha tutto un ritmo tutto suo , quindi aspetto, senza fretta…..

Cristiana Bruè


 

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Regalare la pace

Giovedì 27 Agosto 2009

 

La gente con la sua spontaneità  si confonde con la natura.

Il paesaggio è bellissimo come lo è lo stile di vita di queste persone; sono veramente in sintonia con la natura, qui si vede come i quattro elementi fuoco, terra, acqua e aria siano indispensabili alla sopravvivenza. Pur se noi li definiamo poveri credo siano molto ricchi di ingegno e tradizioni; mi affascina molto la loro vita, forse perché sono consapevole che non riuscirei mai a fare una vita così, lontana dalle mie comodità materiali.

Questa volta vedo gli adulti molto ospitali, calorosi e gioiosi come i bambini. Ci accolgono come la terra accoglie gli uomini.

La pioggia accompagna inesorabile ogni mio passo, inizialmente lo faceva in modo precario ma piano piano lo ha reso più forte.

Qui è una pace per la mia anima, vorrei tanto regalare questa mia emozione al mondo intero.

Sara Francia

 

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Finalmente siamo in Ethiopia

Giovedì 27 Agosto 2009

 

Dopo un lungo corso, tante lezioni e testimonianze, finalmente siamo in Ethiopia, impazienti di vedere con i nostri occhi la realtà di questo paese, nella speranza di saziare la sete di conoscenza e la voglia di fare che ci accomuna tutti.

Calorosissima l’accoglienza ad Addis Ababa, dove ad attenderci  c’erano i nostri corrispondenti: Togo e Belayneh, coordinatori etiopici del GFS (gruppo Fratelli Solidali) e Paolo, missionario laico col quale stiamo affrontando la prima esperienza nella casa di accoglienza di Emdibir.

Subito ci accorgiamo come il tempo trascorra più lentamente qui, assaporando il rito del caffè in una capanna tradizionale di fango e paglia, o ascoltando i locali che parlano con ritmo lento e quasi sottovoce.

Assistendo alla costruzione di un edificio ci ha fatto sorridere la "carriola etiope" (una lamiera con due pali che trasportano come una barella), ma si sa che le vecchie usanze sono difficili da abbandonare… ed in alcuni casi sono più efficienti e funzionali delle nuove tecnologie

Poi l’asilo della missione, un’onda di entusiasmo ed euforia, che ci  ha travolti tra mille sorrisi, giochi e canzoni, ma non solo: i bambini si sono mostrati curiosi ed interessati alla lezione di italiano-amarico, che le ragazze con l’aiuto di Shitaye hanno improvvisato il primo giorno.

Per finire l’atteso imprevisto: la pompa dell’acqua che alimenta il nostro deposito non va più, dopo una prima occhiata ci accorgiamo che le fasi sono invertite e la pompa gira al contrario, come se non bastasse un corto all’impianto elettrico fa saltare l’interruttore principale…

così, con un paio di interventi, risolviamo il problema, ripristinando la luce e l’acqua della missione.

Giuseppe Lannutti Mario Adimari

 

 

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Incontro col diverso da Sè

Mercoledì 27 Maggio 2009

Ognuno di noi possiede in sé una serie di idee, di credenze e di opinioni riguardanti il mondo che lo circonda. Molte di queste idee esistono da ben prima che noi nascessimo e , grazie ai nostri genitori, sono arrivate fino a noi. Facciamo un esempio forse sciocco, o forse no, che può aiutarci a capire. L’educazione che si da ad una bambina è diversa da quella data ad un bambino. Di solito alle bambine vengono riservate più coccole, si ricerca di più il contatto fisico tramite l’abbraccio, viene sottolineato l’aspetto emotivo da sempre correlato al sesso femminile. Il bambino, già da piccolo, riceve un trattamento diverso, gli si raccomanda di non piangere, di essere forte, di fare l’ometto. Da grande vengono sottolineati ed apprezzati la sua forza fisica e la sua durezza emotiva perché l’uomo non deve piangere mai.

Questo esempio è una forte generalizzazione del tipo di educazione che noi tutti, in varie forme ed intensità, abbiamo ricevuto. Chi di noi non ha in sé l’idea che l’uomo deve essere forte e protettivo e che il suo compito principale è fornire sostentamento alla sua prole? Forse anche le femministe più convinte in fondo al loro cuore la vedono così!

Tutto questo per dire che esistono dei pre-concetti che guidano la nostra vita senza, alle volte, esserne consapevoli. Quando entriamo in contatto con la cultura di un popolo che ha idee diverse dalle nostre ci rendiamo effettivamente conto di cosa ci spinge ad agire in un certo modo piuttosto che in un altro. Ci rendiamo conto di vedere le cose diversamente.

La diversità che andiamo a riscontrare fra noi e l’altro ci spinge inevitabilmente ad entrare in conflitto con l’altro. Questo perché dobbiamo abbandonare il nostro modo di vedere la realtà per entrare nel mondo dell’altro. Ciò ci permetterà di percepire il reale in un altro modo, ci permetterà di capire che la realtà come noi la intendiamo e la viviamo non è l’unica lettura possibile. L’opportunità di confrontarsi con l’altro da Sé permetterà la costituzione di una nuova chiave di lettura della realtà la quale sarà arricchita da entrambe le culture che, attraverso il loro incontro, avranno contribuito a generarla. Il processo d’incontro non è mai semplice, provoca conflitto, solo un atteggiamento empatico tra entrambe le parti permette la vera conoscenza tra gli interlocutori.

L’unica realtà possibile non è la propria. Tutti possiamo vivere serenamente senza sapere che, quando facciamo indossare una gonna ad una bambina, dietro questo gesto, c’è tutto un processo interculturale che va avanti da prima della nostra nascita. Il non entrare in contatto con altri modi di pensare ed agire non ci crea disagio. Ma le mille sfaccettature del reale ci saranno veramente chiare solo quando un altro ci metterà di fronte ai limiti della nostra percezione, quando verrà posto in dubbio il nostro regno di certezze.

Diana De Iuliis

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