Valsangro

tigri???? che saranno mai?

Domenica 24 Maggio 2009

Con molta difficoltà scrivo oggi, l’unica cosa che mi spinge a farlo è la voglia che gli altri sappiano.

Non so scrivere di Africa, vorrei scoprirla prima di commentare, posso scrivere di me, di quello che ho vissuto e che sento ora.

Un anno fa sono stata in missione in Sri Lanka.

 Dove si trova??? Questa è la domanda che tutti mi hanno fatto sempre.

Piccola isola al sud dell’India, devastata dallo tzunami e dalla guerra…ma la maggior parte delle persone non lo sa.

Una volta rientrata in Italia una parte di me ha sentito l’esigenza di far sapere come è quel mondo, cosa accade, rispondere a quelle domande a cui giornali e tv non danno risposta. Allora ti chiedi: forse non è importante come la guerra del petrolio, dei missili e della bomba atomica; del resto che valore può avere una guerra che ha la mia età?

Nell’ ultima settimana si è sentito parlare di pace nello Sri Lanka; hanno ucciso il capo delle tigri (tigri????che saranno mai?). Sono tutti in strada che festeggiano si abbracciano e sorridono; la differenza razziale, linguistica, religiosa e culturale non esiste più, tutti sono pronti ad accettare gli altri…ma è poi cosi?

Appena sentita la notizia, ho avuto un balzo. L’ultimo sms che ho ricevuto dall’isola diceva "stanno facendo un genocidio, altro che pace, hanno massacrato tutti senza pensarci 2 volte".

Quando ero li pensavo a come poteva essere la pace, ma era questo quello che immaginavo? perché non mi viene da sorridere?…

Forse noi, con quel poco che ognuno riesce a fare, abbiamo il dovere di essere quelli che informano, cercando di essere obiettivi e tenendo sempre con gli occhi aperti…

Tunnera Annamaria

 

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Il progetto e la popolazione locale

Giovedì 14 Maggio 2009

 

La lezione di Angela Petenzi ha fatto luce su come si elabora un progetto di collaborazione internazionale e su quali passaggi sono essenziali per far si che i risultati di un progetto siano quanto più possibile duraturi nel tempo.

Non starò qui a raccontare ogni singola fase che porta alla stesura di un progetto ma vorrei sottolineare ciò che maggiormente mi ha colpita. Il fatto che la missione sul luogo da effettuarsi nella prima fase detta d’identificazione, al fine di incontrare i futuri attori del progetto, ossia gli stakeholders, sia essenziale ed importantissima. La partecipazione attiva richiesta alla popolazione permetterà l’emersione dei problemi e dei disagi che queste persone vivono quotidianamente. Il loro contributo è essenziale per l’individuazione delle varie cause del problema e delle eventuali strategie risolutive da adoperare e mettere in atto. Ricordiamo anche che, la partecipazione attiva di parte della popolazione alla realizzazione del progetto è un buon indice di riuscita dello stesso. Chi si impegna attivamente nello svolgere e nell’aderire alle attività del progetto farà da monito anche a chi non partecipa.   

Le motivazioni che spingono una parte della popolazione ad aderire alla progettazione e alla realizzazione del progetto sono tante. Quello che mi preme sottolineare è che, anche per un progetto, risulta fondamentale una conoscenza approfondita della cultura del popolo con cui andremo  a lavorare.

Diana De Iuliis

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dove va questo treno?

Giovedì 14 Maggio 2009

 

E mentre oggi i miei compagni di corso sono a Villa Santa Maria a seguire la quinta lezione sull’incontro con l’altro, stereotipi e pregiudizi, io sono qui, a casa con i miei genitori, nella mia bella casa sulla collina.Mi sono ammalata, malanno di stagione, come dicono ultimamente i media. E si, un po’ di febbre, un po’ di raffreddore, magari anche il mal di gola e la ricetta è servita: antibiotico.

Una bella compressa ogni 10 ore per due o tre giorni,al riposo, al caldo e in completo relax. Altre compresse per “proteggere” lo stomaco dall’aggressività (o dovrei dire efficacia) dell’amoxicillina o del ceftibuten, o altri fantastici principi attivi dai nomi più difficili e comprensibili solo per pochi eletti. Tornando alle compresse, aggiungiamo quelle per aiutare il fisico deabilitato e mettiamoci pure qualche rimedio omeopatico che fa tanto “post new-age”. E così, prendo il mio bel computer, l’accendo e inizio a scrivere i miei pensieri pensando all’Africa.

Superato il pensiero ricorrente “l’Africa così lontana, l’Africa così vicina”, trovo un altro che mi dice di ringraziare quello che ho. Anche oggi che mi sento triste, con questa febbre e altri malanni leggeri, sono una ragazza fortunata perché non ho nessun dubbio sull’assoluta certezza di avere tutti i mezzi possibili per essere felici.

E allora, con il mio corpo carico di medicine salgo sul treno e cambio città. Perché mi piace così. La mia vita che segue un filo logico fatto di cambi e incertezze.

E sul treno, tra spiagge già affollate di costumi colorati, un altro pensiero irrompe nella mia ragione.

E se questo viaggio non fosse mio? E se per una magica metamorfosi mi ritrovassi in un corpo di un’altra persona magari in Etiopia, cose succederebbe di quella (o questa) che sono oggi? Un semplice raffreddore potrebbe essere mortale? Niente medicine. In Africa le case farmaceutiche investono “relativamente”. Io odio il “relativo”, è beffardo, ambiguo e illusorio. Relativo può essere vivere in un Paese in via di sviluppo. Perché relativamente un mortale nato nei nostri bei Paesi super sviluppati riuscirebbe a sopportare la vita/non vita fatta di sopravvivenza in un non bel Paese in via di sviluppo.

E allora, dov’è che va questo treno?

Va dove la gente crede di andare e dove è imposta ad andare. E mentre il mondo che mi circonda continua a ripetermi “sei troppo gracile e legata alle tue comodità per andare in Africa”, io vado avanti, scendo e salgo quando voglio perché per me non “è andare in Africa”, ma vivere l’Africa, cercando di capire la sua storia fatta di crudeltà ma anche di speranze. Speranze costruttive che spesso rivelano sogni realizzati. L’utopia del mondo perfetto? No, ma la volontà di costruire un mondo migliore perché se io oggi sono qui e non in Etiopia o Nigeria o in qualsiasi altro Paese in via di sviluppo, e se il colore della mia pelle non preclude pregiudizi, il mio destino è salvo, ma salvo da chi e da cosa? E perché io sono salva e un altro no? E perché la presunzione umana sulla sua superiorità assoluta è così radicata da riuscire a far scatenare guerre e morti innocenti? Non aspiro al mondo perfetto, ma ad un mondo giusto perché nessun essere umano ma anche animale e vegetale, è superiore ad un altro. Ma per noi esseri umani cresciuti con l’illusione dell’intelligenza suprema forse è troppo difficile da accettare. Però basterebbe poco per far crollare il nostro super io, basterebbe guardarsi intorno per scoprire che non siamo diversi, che tutte le costrizioni legate alle  identità sono solo limiti mentali e che il linguaggio infine è unico ed universale.

Penso proprio che così potremmo essere liberi e felici

Assunta Giannico

 

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Quale modello di sviluppo applicare nei Paesi in Via di Sviluppo?

Mercoledì 22 Aprile 2009

…. questa è la domanda che nella quarta lezione del corso ci siamo posti ed a cui abbiamo tentato di dare una risposta.

Ogni mattina un occidentale si alza, beve il suo caffè importato, che so, dal Brasile, si mette le sue scarpette made in China, la maglietta ed i pantaloni prodotti in India, il suo orologio Svizzero e dopo aver mangiato un avocado dell’Africa si sente veramente pronto ad affrontare la dura giornata che lo aspetta. Ma ha dimenticato una cosa, di accendere la sua televisione prodotta in China, ed ascoltare le ultime news dal mondo.

Questo accade nei paesi del Nord dove si vive nel circuito del benessere.

Nei paesi del Sud, invece, si vive subendo le conseguenze generate dalla globalizzazione. Intere popolazioni non hanno più niente se non loro stesse. Non vivono più nel loro villaggio, si spostano sedotti da nuovi stereotipi dettati dalla cultura occidentale, vanno nelle grandi città attratti dalla prospettiva di trovare un lavoro ed un salario per vivere.

Rimane difficile spiegarsi come, alla luce della povertà e della fame che regna in tali paesi, sia possibile rintracciare degli elementi a-tipici come la coca cola, magliette americane, televisori di ultima generazione. Questi elementi stonano profondamente alla luce del contesto in cui vengono rintracciati. Ma poi basta pensare alla globalizzazione, alla liberalizzazione del mercato e tutto ha un senso, tutto si spiega.

La globalizzazione ha avuto una serie considerevole di conseguenze sulla vita degli esseri umani, di tutti noi. Una fra tutte non deve passare inosservata: l’uniformazione di massa. Ormai i bisogni, i desideri, i valori sembrano essere gli stessi ovunque. C’è la perdita del rispetto per le proprie radici, per i propri valori, in poche parole, per la propria cultura.

Quando parliamo di progetti di sviluppo non possiamo e non dobbiamo sottostimare le peculiarità delle zone target dell’intervento.

Un’analisi dell’economia del paese, delle abitudini, della religione delle idee e delle credenze e le leggi che vigono nella popolazione sono fondamentali per la riuscita di un progetto. Affinché un intervento possa avere dei buoni frutti è impensabile che si adotti un atteggiamento didattico od anche dittatoriale del tipo “devi fare questo” “devi fare quello”. È essenziale costruire un dialogo paritario con le popolazioni del luogo, promuovere un processo decisionale e di crescita che coinvolga attivamente le persone nella realizzazione del progetto stesso. In una realtà in cui le uniche sicurezze sono la fame e la povertà non si può pensare di cambiare tutto con lo scoccare delle dita. L’impotenza appresa genera una sensazione di sciagura imminente che blocca le attività, il pensiero, l’azione. Non si può pensare di intervenire su di una realtà senza impegnarsi nell’analisi delle sue molteplici sfaccettature. Non si possono scindere ed analizzare separatamente l’economia, l’organizzazione della società e le sue credenze come fossero elementi distinti. È impensabile oltre che impossibile!

La società è costituita da individui che sono influenzati dalla società stessa, la quale ha delle regole che il singolo è portato a rispettare. Alla luce di tali elementi un progetto deve porsi degli obiettivi a lungo termine che si avvalgano dell’utilizzo delle risorse e degli attori locali.

Proporre degli obiettivi, coinvolgere attivamente la popolazione nella messa in atto del progetto sono dei mezzi efficace per promuovere l sviluppo del senso di efficacia delle persone che vi prendono parte. Le popolazioni locali avranno la possibilità di poter sperimentare la sensazione di poter fare qualcosa per il loro futuro, di modificare la loro condizione di fame e povertà.

Indispensabile per la riuscita del progetto sarà il rispetto della cultura del popolo in questione, intesa come insieme di norme , regole, saperi, abilità, idee, valori, miti, divieti che si trasmettono di generazione in generazione. Questo permetterà un intervento di gran lunga più efficace di quelli che non ne tengono conto. Ricordiamo che ogni cultura di per sé è unica ed irripetibile e come tale deve essere rispettata e deve avere la possibilità di esprimersi liberamente in tutte le sue forme.

Diana De Iuliis

 

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I have, you don’t have

Lunedì 6 Aprile 2009

 

 

Secondo  l’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura delle Nazioni Unite attualmente le persone che soffrono la fame sono quasi un miliardo.

Una persona su sei non riesce ad avere una nutrizione adeguata per assicurare al proprio corpo il giusto apporto di proteine e calorie. Un dato sconcertante. Soprattutto se si pensa che  negli ultimi quattro mesi, a causa dell’attuale crisi economica, le persone che soffrono la fame non sono più solo quelle che vivono nei paesi in via di sviluppo ma anche nei cosiddetti Paesi ricchi  .

Secondo Wikipedia la fame “è riferita letteralmente al bisogno di cibo”.

Bisogno di cibo che per noi fortunati si traduce in quella sensazione che si crea dopo un lasso di tempo tra un pasto e un altro. Faccio colazione, dopo qualche ora avverto quella sensazione che non è proprio fame ma è come … un chiamiamolo  “languorino”, allora mangio, fino all’arrivo del pranzo. E poi magari un altro spuntino e alla fine, la tanto aspettata cena. E se proprio voglio esagerare, mangio “qualcosina” anche dopo cena.

E si va avanti così, più o meno, seguendo le tendenze, gli abbinamenti giusti, i suggerimenti dei migliori chef che per essere tali non perdono i loro 15 minuti di celebrità sul grande schermo e quando ci sentiamo di aver esagerato, via con qualche dieta direttamente dalle super Star di Hollywood. E superato il periodo di restrizione si ricomincia, magari stando più attenti agli ingredienti, alle amate quanto odiate calorie, alla freschezza, vivendo con il terrore della data di scadenza di un prodotto.

E mentre noi ci disperiamo perché  tra qualche mese ci sarà la fatidica “prova costume”,  non molto lontano dalle nostre luccicanti spiagge, persone come noi muoiono perché non hanno di che sfamarsi. Persone malnutrite che non riescono ad assicurarsi nemmeno un pasto al giorno.

Per chi non soffre la fame come sofferenza fisica è difficile capire come si possa morire proprio di fame. Qui non si muore di fame, anzi si può morire di malattie connesse all’obesità, all’aver mangiato troppo e male.

La fame, per chi non la vive e per chi come me cerca di raccontarla, è solo una sensazione.

Una sensazione con scadenza (a tempo) e con un bipolare piacere (dal piacere bipolare).

La nascita della sensazione della fame, posizionata in un determinato momento, genera un non piacere, un piacere mancato da compensare il prima possibile.  Il prima possibile riflette le nostre capacità, fisiche ed economiche, nel riuscire a placare la sensazione di fame mangiando fino al piacere della sazietà, ma anche oltre. Ho fame, cerco ed ottengo il cibo. La mia vita continua. Questa è una delle tante e belle “certezze garantite” dal nostro sistema.

Ecco, è proprio questa “certezza garantita” che manca nei paesi in via di sviluppo ma cha attualmente sta interessando anche il mondo ricco.

(Io non so cosa si possa provare nell’avere la certezza che non ci siano certezze. Vorrei avere il potere di fare quello che penso per cercare di cambiare il mondo. Ebbene si, con presunzione dico:

io voglio cambiare il mondo perché questo che ci hanno dato oggi proprio non mi piace.)

Domenica abbiamo parlato di fame, abbiamo parlato di aiuti veri ma anche di “food for a war”. E se nei prossimi acquisti cercherò di leggere bene l’etichetta, non lo farò solo per la “linea” ma lo farò per capire da dove proviene ciò che sto comprando. Perché se è giusto esportare ed importare, è anche ingiusto importare un prodotto in un’Italia che lo produce. Non sarebbe più giusto dare a chi non ha?

Non è un pensiero da quattro soldi ricopiato e ben stampato, esistono realtà che basano le loro politiche proprio sul “give it to doesn’t have”  e secondo me è una cosa buona.  Semplice e buona. 

Assunta Giannico

 

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Un detto abruzzese per iniziare a riflettere

Mercoledì 1 Aprile 2009

 

 

Mi ritrovo, dopo la lezione, ad avvertire non solo un senso d’impotenza, ma anche una rabbia crescente. Una rabbia che nasce dall’ingiustizia. Non mi capacito di come sia possibile che nascere in un determinato paese possa implicare dover lottare una vita per avere quello che è un bisogno primario e che dovrebbe essere garantito a tutti, il cibo. E soprattutto non riesco ad accettare il continuo approcciarsi alle realtà presenti nell’Africa con lo spirito dell’occidentale che tutto sa e tutto può. È una cosa che proprio non mi va giù.

La situazione economica attuale, nel nostro paese, necessita di una strategia da mettere in atto per fronteggiarla ma, proprio noi occidentali, preferiamo negare l’evidenza: “La crisi è passeggera”, si sente dai nostri politici, “Fra due anni ne usciremo fuori”. Tutte menzogne. Nessuno si preoccupa di dirci la verità, nessuno s’interessa di spiegarci il funzionamento del mercato, del potere che un consumatore ha su di esso. Non siamo tutti economi, sono la prima che davanti ad un telegiornale che tratta questi argomenti fa fatica a capire di cosa stanno parlando. A chi rivolgersi per tentare di capire? I governi dei vari paesi metteranno in moto dei meccanismi per fronteggiare la crisi ma noi, o meglio io, più che subirli e non capirli minimamente cosa posso e devo fare?

In una situazione che ai miei occhi pare molto confusa mi chiedo come i paesi del Nord del mondo vogliano agire nei confronti dei Paesi in Via di Sviluppo. Come pensano di aiutarli anche in questo momento di forte crisi economica?

Mi fa riflettere quanto detto nella terza lezione del corso: per due anni sono stati spediti aiuti alimentari ai più poveri di alcuni paesi dell’Africa e le organizzazioni umanitarie non si erano rese conto che il cibo finiva nelle mani dei soldati. Sono rimasta senza parole. In questo momento di crisi non possiamo e non dobbiamo permettere errori grossolani di questo genere.

Quanto detto mi fa pensare che in realtà anche nelle organizzazioni umanitarie ci sia una falla dovuta alla solita lente ottica da occidentale. Noi occidentali tendiamo per natura all’individualismo. Preferiamo fare da soli che collaborare. Collaborare significa mettersi sullo stesso piano dell’altro, esprimere le proprie idee ed i propri obiettivi, accettare le critiche e farne, migliorarsi attraverso di esse e soprattutto trovare un accordo. Sarò polemica e me ne scuso, ma sono abituata per via della mia formazione a guardare un problema, una situazione od una persona da molteplici punti di vista. E, soprattutto, sono abituata a collaborare. Non si può pretendere di sapere sempre tutto su tutto. Non si deve e non si può pensare di conoscere una realtà in quanto essa ha mille e più sfaccettature che forse mai riusciremo a conoscere. Cadere in questo errore ci può stare, sbagliare è umano, ma perseverare è sciocco oltre che diabolico. Vorrei chiudere con un detto abruzzese: due teste pensano meglio di una. Sagge parole! Mettiamole in pratica.

Diana De Iuliis

 

 

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Le “Afriche”…tra fascino e sfruttamento

Giovedì 19 Marzo 2009

Immagini, pensieri e ancora immagini affollano la mia mente. E come in un sogno, sono già li, nella “mia” Africa tanto attesa e desiderata. E lungo la strada che non c’è  vedo un bambino che va a scuola,  in mano non ha un quaderno, sulle sue  spalle non c’è lo zaino griffato dell’ultima pubblicità apparsa in  tv. Il bambino ha in mano un mattone di cemento… è la sua sedia. Niente penne, né colori e tantomeno quaderni, astucci logati e libri . Sarà per la mancanza di tutto ciò che la memoria li è più forte? Forse.

Il bambino che entra nella scuola costruita con materiali di fortuna è la persona che questa mattina ho di fronte, Don Daniel Ngandu. E’ cresciuto ma il suo sorriso è rimasto contagioso, proprio come quello dei bambini.  Oggi il suo compito è quello di farci capire la complessità di un continente vasto e problematico come l’Africa. O meglio, le Afriche. Ebbene si, non ha senso parlare di una sola Africa, visto che già ad un visione superficiale scopriamo che ne esistono almeno quattro:

Africa del nord, l’Africa dell’ovest, l’Africa  Subsahariana e il Sud Africa. Se a queste Afriche aggiungiamo tutte quelle che si differenziano e si distinguono per tradizioni e lingue, il risultato finale, in un mondo perfetto potrebbe essere a dir poco stupefacente,  sommersi da suoni, danze, colori e odori, leggende, superstizioni, a volte assurde e cattive, tribù e capi.

Ma il nostro non è un mondo perfetto, così succede che una regione dell’Africa come il Congo, ricchissima di titano, oro, cobalto, rame, petrolio e acqua, venga usata esclusivamente per uno scopo: “sfruttamento”.

Non ho il potere per criticare e cambiare i flussi che muovono le grandi potenze, però ho gli occhi per vedere quello che ci circonda e capire che c’è qualcosa di sbagliato dagli inizi.  Non so spiegare perché un popolo debba essere migliore di un altro a tal punto da poterlo sopraffare e sfruttare. Così come non so spiegare filosofie o religioni che siano, che ritengono l’uomo un essere eterno nell’aldilà ma  estremamente  fragile, debole e fallimentare nella vita passeggera sulla Terra. Chi decide quali sono le idee comuni sulla qualità della vita?  E chi decide di imporre queste  idee su quelle degli altri?  Perché i diritti degli uomini di vivere con dignità devono essere legati allo stanziamento  dei vari fondi?

So che le mie sono domande a cui non avrò mai le giuste risposte, e non mi rammarico per questo. Ho il mio progetto da portare avanti che non cambierà le sorti di uno Stato, da sola non riuscirò a salvare l’Africa ma so che nel mio piccolo, anzi piccolissimo rispetto alla vastità dell’Africa che, riuscirò a far sorridere un bambino, magari per poco, ma credetemi è molto meglio di niente o peggio, del “lo farò un giorno”.  

Assunta Giannico

 

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… sofermiamoci solo per un attimo ….

Giovedì 12 Marzo 2009

 

 

Nella nostra frenetica quotidianità soffermiamoci solo per un attimo, sospendiamo la nostra “lotta” contro il tempo. Utilizziamo la fantasia,facciamo uso della creatività per pensare a un mondo bizzarro, si proprio a lui, il nostro mondo pazzo, quello del divario tra un Nord ricco e dovizioso e un Sud che pur vivendo tra mille difficoltà economiche, presenta ricchezze culturali di incredibile importanza.

Cerchiamo di capire il mondo nella sua globalità, di affrontare il tema del circolo vizioso che lega povertà, degrado ambientale e cattiva salute: un circolo vizioso che in Africa, più che in qualsiasi altro posto sulla terra sono convinta,assume dimensioni allarmanti.

Finalmente domenica 1Marzo ho potuto iniziare a vivere e credere in un desiderio che fino al giorno prima credevo fosse irrealizzabile.

Mi sono trovata, con un gruppo di ragazzi che,come me, hanno a cuore il mio stesso obbiettivo: quello di iniziare, portare avanti e soprattutto concretizzare e godere in tutta la sua specialità, il sogno di una vita.

Voglio poter crescere in questo settore della solidarietà,essere capace di relazionarmi con loro, arricchirmi ogni giorno di più di esperienze nuove che difficilmente si possono dimenticare…poter dare! Poter tornare con la gioia che sono sicura mi lascerà dentro e porterò sempre con me e con la voglia di tornarci e poter ringraziare anch’io l’AFRICA.

Ho proprio il desiderio di poter provare tutte quelle belle sensazioni ed emozioni che hanno provato i ragazzi che hanno vissuto questa esperienza. Stando qua,di certo,non posso provare.

Nora Pili

 

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la matematica ci aiuta a capire meglio

Sabato 7 Marzo 2009

  

 

Nella prima lezione del corso tenuto dal Monsignor Jean Marie Pendawatu sono stati molteplici gli argomenti trattati. Uno, più di tutti, mi ha colpita ed ha suscitato in me molte riflessioni: la diversità fra la medicina dei paesi del Nord e quelli del Sud.

Nei nostri paesi un comune e banale raffreddore non spaventa, né preoccupa più al giorno d’oggi. Nessuno di noi ha difficoltà a contattare un medico, farsi prescrivere dei farmaci appropriati alla patologia presentata e curarsi. Nei casi più gravi, abbiamo la possibilità di correre in ospedale! Tutte cose che facciamo senza rifletterci perché le diamo per scontate.

Nei nostri paesi abbiamo quel tipo di medicina definita dei “bisogni”. Tutti devoti al culto del corpo, alla ricerca della vita eterna, al bisogno costante di tendere  all’infinito e poi ancora oltre. Tutto questo ci porta a non riflettere sul dato oggettivo che non tutti hanno la fortuna di nascere in un luogo in cui la salute, in senso lato, è assicurata. Grazie alle nuove tecnologie, alle nuove scoperte in campo medico e alla sperimentazione di farmaci e, soprattutto, allo sviluppo di nuove branche della medicina, si perde di vista la cura del sintomo, della patologia.

Nel Sud del mondo la medicina dei desideri è impensabile. In paesi in cui la salute non viene tutelata esiste solo la medicina del bisogno. Non è la pigrizia che spinge i medici di questi paesi a non avvalersi di tecnologie all’avanguardia o di farmaci di ultima generazione. È la mancanza di essi il vero problema! Le strutture mediche sono poche e attrezzate male, le figure professionali e i mezzi tecnologici più elementari non sono disponibili, i fondi per la sanità pubblica sono pari a zero.

Anche l’effettuare una vaccinazione a scopo preventivo risulta un’azione mastodontica: non ci sono i vaccini, non c’è un luogo in cui conservarli, non c’è il personale qualificato per somministrarli.

Questa è la cruda realtà!

Chiediamoci quanto è facile da noi fare un vaccino. Ormai è diventato una routine! Possiamo anche scegliere se fare o no il vaccino contro l’influenza!

Cosa dire allora? Che siamo fortunati.

Cosa siamo chiamati a fare? A riflettere.

Domandarsi il perché delle cose che accadono nel mondo, contestualizzare quanto apprendiamo, riflettere su quanto abbiamo noi e quanto manca agli altri e domandarsi cosa possiamo fare per loro.

Dopo la lezione due parole mi giravano per la mente, senza tregua: diversità e differenza. Vorrei provare a spiegare la prima con un esempio. Pensiamo alla matematica e a una semplice sottrazione: 36- 4= 32. C’è un valore più grande da cui viene sottratto un valore più piccolo.

Se questo esempio lo applicassimo sugli esseri umani dovremmo dire che il signor Tizio (36) vale più del signor Caio (4). E che quindi tra di loro c’è una grande differenza. Ma da chi viene stabilità questa differenza? Dalla cultura? Dal paese in cui si è nati o dalle possibilità economiche di cui si dispone?

Ecco che il concetto di differenza deve essere sostituito con quello di diversità.

Siamo tutti diversi, ognuno ha le sue caratteristiche, i suoi valori, la propria cultura, la propria lingua. Ed alla luce di ciò, non possiamo pensare che l’essere diversi per questi aspetti ci permetta in qualche modo di ritenerci superiori agli altri, imponendo loro il nostro modo di pensare, di credere o di fare. Ogni realtà, per essere compresa realmente, fino in fondo, deve essere letta con gli occhi di chi la vive quotidianamente, senza pregiudizi o preconcetti e senza ritenersi i detentori di un sapere unico e indiscusso. Solo così, potremo dire di essere entrati in contatto con l’altro.

Diana De Iuliis

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VILLA SANTA MARIA, SI RIPARTE…

Sabato 7 Marzo 2009

 

 

Secondo appuntamento a Villa Santa Maria con il Corso di Orientamento alla Solidarietà. Venti gli iscritti che domenica scorsa si sono dati appuntamento presso le sede della Comunità Montana Valsangro per inaugurare il lungo percorso che li porterà ad accedere alle tanto ambite borse di studio, consistenti in un viaggio in un paese in via di sviluppo.

Hanno presenziato alla prima lezione, oltre al presidente della Comunità Montana Arturo Scopino e al presidente dell’associazione “LumbeLumbe” Italo Governatori, monsignor Jean Marie Mpendawatu che ha intrattenuto la sua platea con un interessante excursus su quelle che sono le problematiche, soprattutto dal punto di vista igienico e sanitario, dei paesi più disagiati.

Otto ore di lezione sono scivolate via tra testimonianze, sorrisi, presentazioni e tutti quei buoni propositi utili alla costruzione di un’atmosfera gioviale e rilassata che forse stride, e striderà nei prossimi incontri, con la profondità e il calibro delle tematiche trattate.

Hanno partecipato all’evento, inoltre, alcuni dei ragazzi che, l’anno scorso, hanno avuto la possibilità di effettuare un provante e educativo viaggio in Congo e in Angola in seguito alla prima edizione del corso.

“Ricordo ancora i vostri volti quando vi ho accolto al vostro ritorno”. Così ha esordito Arturo Scopino rivolgendosi ai ‘ragazzi della passata esperienza. “ Eravate provati, stanchi, ma anche molto felici. Non potrò mai dimenticare la serenità impressa nei vostri lineamenti in quella giornata che non scorderò mai”.

Parole importanti che raccontano con semplicità il culmine delle emozioni che i volontari del 2008 hanno avuto il privilegio di provare. Bene…io sono una di loro e onestamente vi dico che non dimenticherò mai le sensazioni che hanno scosso l’anno più bello della mia vita.

Ricordo ancora gli odori di un paese così lontano ma che porto ancora nel cuore, le voci, o meglio le urla, di tutti quei bambini increduli della nostra presenza e che, con molta probabilità, ci stanno ancora aspettando, i suoni melodiosi delle serate passate senza elettricità (un bene essenziale per noi occidentali!), i balli nei quali ci siamo dilettati (facendo delle pessime figure!) con i seminaristi….insomma potrei andare avanti per ore parlando di Congo, d’Africa, della mia vita.

Noi ci siamo limitati a portare un sorriso. Forse è stato l’unico mezzo che ci ha permesso di entrare in una terra sconosciuta e di pervadere i cuori di chi fino a quel momento non conoscevamo. Un SORRISO che porteremo con gioia e umiltà per sempre con noi.

Barbara Del fallo         

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