Provincia di Macerata

Bairro Lixeira

Martedì 24 Luglio 2012

Bairro Lixeira, municipio Sambizanga, Luanda. E’ qui che vive una parte di quegli otto milioni di persone, dato stimato, che gravitano nella capitale dell’Angola. Per vedere gli occhi dell’umanità, il gruppo di LumbeLumbe, composto da Alberto, Anna Rita, Cecilia, Laura, Nicoletta, Paola, Roberta, Stefano, qui per un’esperienza di solidarietà legata al corso di orientamento alla cooperazione, ha avuto il privilegio di essere accompagnato attraverso le ruas (strade) di questo quartiere, benedetto dalla presenza dei Salesiani di Don Bosco.
Insieme ad Osvaldo, e alla sua musica rap, sabato pomeriggio abbiamo attraversato a piedi parte della Lixeira, un immenso agglomerato urbano di baracche cresciuto su una discarica. Dalla Casa del Volontario, che ci ospita, situato in uno dei cinque centri Salesiani diretti da Padre Santiago, abbiamo raggiunto il Centro per ragazzi di strada, al Trilhos (quartiere ferrovia), dove operano anche Richard, Larissa e Marcellina. E’ solo un percorso di un quarto d’ora ma è un tempo necessario per vedere e percepire cos’è l’umanità. E’ naturale dare ragione a Padre Santiago che di questo posto occorre “parlare delle cose belle, e non di quelle brutte”. E le cose brutte non mancano di certo, dalla mancanza di fogne alle strade dissestate, dalle baracche fatiscenti, ma pulite, alla mancanza di qualsiasi servizio, una giungla desertificata all’interno della città, ma, soprattutto, la povertà che è madre e compagna ora, e forse per sempre, della maggioranza di chi vive qui.
Ma le cose brutte, almeno per chi vede l’Africa per la prima volta, scompaiono, o almeno vengono fortemente offuscate, dagli sguardi di queste persone. Sguardi in cui abbiamo visto dignità, forse non serenità. Rassegnazione? Può darsi, anche se la sensazione è che ci sia una grande energia, che porta sì alla sopravvivenza ma anche alla speranza. Abbiamo visto la gioia negli occhi dei bambini che abbiamo incontrato nelle ruas, in quelli che, dal cortile della scuola dei Salesiani ci chiamano “amigo”, in quelli che stanno uscendo dalla libertà e dall’anarchia della strada per vivere in una comunità, in tutti quelli che, dopo la Messa della domenica, dal Trilhos ci hanno riaccompagnato mano nella mano alla struttura dove siamo ospiti. Sono stati loro a prenderci la mano e sono stati loro le nostre guide attraverso  quello che è il loro mondo, fatto di giochi per strada, di quizomba (danza tipica angolana) del legittimo desiderio di immaginare un futuro per loro stessi, della timidezza con cui ti dicono il loro nome ma, soprattutto, in quel sorriso che arriva dritto al palpito del cuore e ti fa intuire che non può esserci un posto migliore di questo per chiedersi cos’è una persona, cos’è l’umanità, per pensare, e mettere in discussione l’attuale globalizzazione.
Alberto Filippone ed il gruppo LumbeLumbe
 

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Cronache di uno (stra)ordinario week end all’Aucca

Lunedì 28 Maggio 2012

E niente, praticamente m’hanno fatto sveglià all’alba per andà su sto posto sperduto che per trovà la strada non te la racconto … te dico solo che non piglia il cellulare. Ma ‘nsomma arrivo là, c’erano un po’ de tipi, facce viste … Figurati che i nomi ancora non li so.
Immagina, arriva sta psichià… sta psicò… sta dottoressa, che ce fa mette tutti in cerchio e se comincia.
La prima attività era sto gioco sull’astronavi, in pratica tipo guerre stellari no? Solo che dovevi sceglie l’equipaggio, chi parte e chi resta a casa. Perché bisogna andà su sto nuovo mondo, solo che non te poi portà a tutti. C’erano un po’ de personaggi: un fascistone, uno sbitto col fucile, uno che correva, un’altra che cucinava … Poi un architetto, un prete, una dottoressa, una sedicenne incinta, una prostituta e sto falegname cieco … Insomma, un branco de sfigati! E chi te voi portà??? E invece cinque te li dovevi portà per forza, quindi, parla che te riparla, abbiamo scelto i meno peggio … Che invece erano i peggiori! Te pareva! Il falegname era un depresso, la prostituta era un trans, l’architetto uno de quessi che se magna solo l’erba, la dottoressa … solo de nome, la sedicenne … poraccia, pure l’AIDS c’aveva! Insomma, un macello!
Morale: a ragionà per pregiudizi ce se po’ sbaglià de grosso!
Poi per mezz’ora, non ho capito se era un punizione, c’ha fatto fa ‘ste cose da fricchettoni, cioè tipo dovevi sentì i rumori della natura, entrà in ascolto, facce un disegnino …
Morale: che se te stai zitto dù minuti, magari t’accorgi de tutto quello che c’hai intorno!
E poi lascia perde! Abbiamo fatto il gioco: compra ‘na vocale! Abbiamo buttato su la Filarmonica dell’Aucca, che l’orchestra della Rai non ce vedeva proprio!
Morale: un po’ d’autoironia non fa mai male! Anzi, a pensacce meglio, fa bene all’autostima!
Grazie a Dio pure la psicologa magna… e quindi ‘na gran magnata!!!E che ‘na penneca non te la fai?
Il pomeriggio se ricomincia!
Abbiamo iniziato ‘st’attività sulla banalizzazione … va bè, questa te la racconta alla fine!
E poi hanno tirato fori ‘ste riviste del 15-18 … e n’altra volta ‘sta storia dell’astronave e del nuovo mondo, aridaje! Stavolta però invece che 5 persone te dovevi portà due cose. Che io non ho capito, visto che eravamo in tanti, solo due cose ce potevamo portà! Comunque, iniziamo a discute, chi se vole portà quesso, chi se vole portà quello … Ma alla fine nessuno ha rinunciato a niente, perché più o meno quello che ce volevamo portà, a guardà bene, era lo stesso: la natura e volemose bene! Che te lo dico a fà!
‘Nsomma, dopo che ce siamo lanciati una palla e dù sguardi, ce siamo salutati.
Ah! Dimenticavo! L’attività che te stavo a dì prima, la banalizzazione del discorso …consisteva …BOH!!!!
 

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La tavolozza della speranza

Venerdì 4 Maggio 2012

Sono tornata a casa con le mani sporche di acrilico, con una tavolozza disegnata sui palmi e sulle dita, con addosso la gioia dell’infanzia di aver potuto mescolare i colori con le dita. “Mi sono sporcata le mani” posso dire citando Italo Governatori, presidente di LumbeLumbe, e i suoi racconti sull’Africa. Mi sono sporcata le mani nella casa di contrada Aucca, a Penna San Giovanni (Mc), ospite di nonno Raffaele, che l’ha costruita, anche lui, con le sue mani, mattone dopo mattone, insieme ai compagni di corso di solidarietà e di cooperazione internazionale, organizzato da LumbeLumbe. Dall’Aucca è partito il cammino per costruire, tutti insieme, il nostro progetto “dal 12 al 12”, realizzato insieme alla Provincia di Macerata, alla Comunità Montana dei Monti Azzurri, ai Comuni di Sarnano, Penna San Giovanni, Sant’Angelo in Pontano e Monte San Martino, che ci porterà in piazza, nel capoluogo maceratese, il 12 giugno per celebrare la “Giornata mondiale per il contrasto allo sfruttamento del lavoro minorile”. Piazza dove saranno esposte tele colorate delle dimensioni del quadro di Picasso “Guernica”, 3,5 per 7,8 metri. Noi corsisti, insieme ai tre angeli custodi dell’arte, Alessandro, Federica, Sara, arrivati ad aiutarci dall’Accademia di Belle Arti di Macerata, ai “romani” Roberta, Annarita, Stefano e Roberta, una felice coppia “immortalata” nel lavoro collettivo, ai pennesi Silvia e Sebastian, gentili salvatori del mio materassino per dormire, abbiamo vissuto tre intensi, e impegnativi, giorni del workshop per diventare Team Leader di Scream-Supporting Children’s Rights through Education, the Arts and the Media, una metodologia costruita per coinvolgere i giovani sul tema dello sfruttamento minorile. Un percorso in cui siamo stati guidati da Maria Gabriella Lay, già funzionaria dell’Ilo, l’Organizzazione internazionale del lavoro, e da Alberto Filippone, con esperienza pluriennale e internazionale nella formazione di giovani sulle metodologie SCREAM, all’anagrafe un trentenne ma, in realtà, credo un “highlander” dell’aula. Tre giorni “protetti”, oltre che dai loro antenati, da Italo e dalla paziente Ersilia, che hanno messo a disposizione la loro bellissima casa, in una collina marchigiana degna di essere protagonista dello spot che pubblicizza le nostre uniche Marche. Un cammino cominciato con un’avventura quasi pre-Angola. Con una decina di auto, impossibilitate a seguire la guida “speedy” di Italo, padrone del territorio e delle curve su strada sterrata, siamo finiti completamente fuori luogo, persi in una radura a ridosso del fiume Salino. Per fortuna che i contadini hanno sempre coltivato, oltre che la terra, vie alternative alla fame e ai campi. Siamo così scappati da una situazione imbarazzante seguendo la nostra guida che, nel frattempo, aveva moderato la velocità. Il programma di Maria Gabriella e Alberto è durato tre giorni, la mattina, il pomeriggio e anche la sera, con ritmi imposti dal “sabaudo” giovane formatore, forse erede di qualche generale delle truppe piemontesi scese nelle terre del papato in epoca risorgimentale. Comunque, Maria Gabriella ci ha illustrato il funzionamento delle Nazioni Unite e delle sue agenzie, in particolare dell’Ilo da cui è partita la missione di combattere lo sfruttamento del lavoro minorile, ci ha spiegato i valori legati a SCREAM mentre Alberto ci ha messo subito in mano penne, fogli e colori e ci ha tirato fuori tutto quello che c’era dentro di noi, creatività, emozioni, pensieri, idee, proposte, da mettere in campo sul tema dello sfruttamento minorile. Entrambi ci hanno accompagnato, e ci hanno garantito che continueranno, nella strada per diventare formatori del programma SCREAM, a nostra volta, di ragazzi e bambini delle scuole della provincia di Macerata. Dopo questa preparazione, e dopo una domenica sera in cui si respirava aria di festa, peccato il Varnelli fosse così poco, il lunedì ci siamo concentrati sulla nostra grande tela, allestita all’interno dell’ex scuola di Penna San Giovanni (Mc) e realizzata partendo da un bozzetto condiviso da tutti. Ognuno ha messo quel che poteva. Qualcuno ha avuto un’ottima impronta per disegnare, la maggior parte di noi si è cimentato nell’arte del colorare. Ci hanno accompagnati, direi mano nella mano come “frichi” (bambini in vernacolo marchigiano) della pittura social-contemporanea, Alberto e i tre artisti, ormai anche loro parte del percorso, senza possibilità di uscita almeno fino al 12 giugno, e credo anche dopo. Hanno dato il loro contributo il nostro Max Volpe e anche le coordinatrici di Comunità Montana e Comuni, coinvolti nel progetto, che hanno messo sulla tela la loro esperienza di insegnati e di educatrici. Una lunghissima giornata passata letteralmente in ginocchio a costruire l’immagine della nostra visione dello sfruttamento minorile. Non è un’opera d’arte, forse non verrà esposta all’Onu, magari ci arriverà solo in foto, ma rappresenta tutto il nostro sentire. Sabato la finiremo, credo più gli artisti che noi corsisti, ma tutti insieme la guarderemo soddisfatti perché fra quei colori, quelle forme, quelle espressioni, ci sono i nostri cuori. E, soprattutto, c’è il risultato di questi tre magnifici giorni in cui, nella casa di nonno Raffaele, siamo entrati singoli corsisti e siamo usciti come un gruppo affiatato, ricco di gioia e di risate. Un gruppo che, ormai, è sulla strada dell’impegno sociale, della consapevolezza, della “responsabilità”, come direbbe Maria Gabriella, dell’uguaglianza, in cui, scusate la retorica, io ci credo ancora. E, se volete, possiamo urlarlo insieme.
Paola Cimarelli
 

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Giovedì 29 Marzo 2012

Dopo la lezione della Prof Maria Gabriella Lay ed in particolare dalla visione del  video, nel quale si evidenzia come alcuni prodotti di uso comune e di grande impatto commerciale, emergono sacrifici umani, sopprusi alla dignità, tribolazione e degenerazione…. IN QUANTO questi prodotti vengono realizzati da bambini non tutelati dai diritti e condannati alla schiavutù, è scaturita questa riflessione che si è poi tradotta in colore.

"La polvere del denaro offusca la vista" e ci fa perdere la consapevolezza del NOSTRO futuro

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It doesn’t matter if you’re black or white. I’m not going to spend my life being a color. MJ

Martedì 13 Marzo 2012

Lui è Charly. E’ senegalese e vive in Italia da un po’ con sua moglie ed un bimbo piccolo.
In estate, nei fine settimana, prende spesso il treno per San Severino e vende i suoi braccialetti.
Un giorno lo vidi con indosso una veste bianca, bella, luminosa: mi spiegò che la teneva per ricordare il giorno dell’indipendenza nel suo paese.
Accettò volentieri di farsi una foto insieme. Quando avvicinai la mia mano alla sua, in quel modo, captai la sua sorpresa, e poi commentò ridendo : “ ringo!? ”. L’effetto difatti è proprio quello di panna e cioccolato, o caffè e latte. Colori diversi, ma non solo : culture , religioni , lingue, vite differenti insomma … Eppure comunicazione c’è. Quest’anno, lavorando nella mensa dell’università, ho avuto la fortuna di conoscere diversi ragazzi stranieri. Tentare di capire l’altro mi è sempre piaciuto e suscitato interesse, anche se poi non è sempre possibile. Cerco sempre di conoscere, e apprendere da chi, culturalmente, vede la vita in maniera diversa dalla mia. Godfrey è un ragazzo ugandese e studia farmacia. Inizialmente fu parecchio diffidente. Un giorno a pranzo presi iniziativa e gli dissi : “ Lo so, qui non conoscono il matoke, mi dispiace”. E sorrisi. Ho visto luce e stupore nei suoi occhi, allo stesso tempo. Poi siamo scoppiati a ridere.
Quel termine ugandese funzionò come chiave d’accesso : da allora, quando capita, sediamo addirittura allo stesso tavolo e accompagniamo il pranzo conversando. Dopo la laurea spera di tornare nel suo paese e lavorare come informatore farmaceutico o nel campo della ricerca.
Tuhin è un ragazzo del Bangladesh. Studia biosciences and biotechonology. Comunica solo ed esclusivamente in inglese ma è particolarmente interessato alla cultura italiana e vorrebbe apprendere la lingua. Parliamo quasi tutti i giorni in chat e anche con lui è capitato diverse volte di pranzare o cenare insieme.
Michael è invece un venditore ambulante di origine nigeriana. Vive in Italia ma ha la sua famiglia in Ucraina : moglie, e due figli piccoli.
E’ una persona gentilissima. Un sabato d’estate, poiché passò verso l’ora di pranzo, chiesi ai miei il permesso di farlo pranzare con noi. Quel giorno, insieme ai miei e mia sorella, ebbi la gioia di avere a tavola anche lui. Due anni fa, decisi di mia iniziativa di preparare circa cento biglietti per augurare un buon Natale a tutti gli anziani della casa di riposo nel mio paese : il giorno della vigilia andai con un’amica per distribuire i pensierini. Alcuni di loro baciarono la foto dell’angioletto sul biglietto come fosse un santino. E furono contenti di quel gesto come se avessero ricevuto chissà cosa. Io entrai nel ricovero con incertezza e timore; ne uscii con una sensazione di appagamento, e lo spirito del Natale appena ritrovato. Non ho esperienze nel campo della cooperazione, purtroppo. Io colleziono con gioia momenti di solidarietà e condivisione come questi. Ne faccio tesoro. E non guardo la diversità in una persona insomma, ma il cuore.
Sarei un’ipocrita se dicessi che il diverso non mi colpisce: mi colpisce, ma nel senso più positivo del termine. La diversità si nota, è vero, ma non lascio che mi influenzi, o peggio, mi limiti, mi freni. Son del parere che le diversità altrui siano motivo di crescita e miglioria per la persona.
E’ inutile andare contro il diverso perché omosessuale o perché nero : ognuno di noi pur appartenendo alla stessa cultura, è comunque differente nel suo essere (potremmo andare contro tutti allora). Ma questo non è un male, tutt’altro. Ciò che mi dà rabbia è approfittarsi delle differenze e il fatto che esse vengano spesso confuse con le diseguaglianze. La differenza c’è, esiste, è un dato fattuale : avere un certo colore di pelle, piuttosto che un altro. La diseguaglianza è invece giudizio di valore. E giustificare un atteggiamento nei confronti di qualcuno perché possiede determinate caratteristiche innate, diverse dalle mie, è sbagliato e inutile : non conduce a nulla di positivo, ancor meno costruttivo, anzi ,distrugge. Due amici della stesso paese sono essi stessi diversi tra loro: uno più timido, l’altro più estroverso; uno credente, l’altro ateo. Eppure, condividono la vita. Se io andassi in Africa, potrei continuare a considerare diverso il bambino di colore, scarno, che indossa un paio di mutandine e se ne va scalzo per il villaggio?Potrei invece essere io il diverso ai loro occhi?
Nella cultura occidentale rientra nella concezione di diverso tutto ciò che si allontana dalla nostra tradizione. Ma un italiano, non è tanto diverso da un americano quanto può esserlo un indiano? Tutto dipende insomma dall’ottica con cui si osserva. E come si osserva. Diverso è spesso tutto ciò che si discosta dalla norma. Ma il concetto di norma è relativo, è una convenzione. Inutile porsi in un piano superiore. La comunicazione è già tanto difficile di per sé, troppo, piena di inconvenienti e incomprensioni, e noi la complichiamo creando barriere impenetrabili. Pensando alle difficoltà di approccio che si possono avere quando ci troviamo di fronte qualcosa o qualcuno “di nuovo”, mi viene in mente un assioma del metodo comparativo.
Quando il giurista effettua una comparazione tra ordinamenti giuridici, ha il dovere di porsi in una condizione di neutralità assoluta, perché la comparazione esige un esame imparziale che non comporti una stima del loro valore. Lo scopo è quello di studiare i vari modelli per individuarne differenze e somiglianze, e colmare possibili lacune presenti nel proprio modello, prendendo spunto dagli altri. Questo è possibile per quel giurista che si spoglia dei criteri di valutazione appartenenti al proprio ordinamento, per assumere piuttosto, criteri interpretativi propri dei singoli ordinamenti. Allo stesso modo fa il sociologo, ad esempio, l’antropologo, ecc.
Insomma, tutto questo a parer mio dovrebbe essere trasportato nella quotidianità, ogniqualvolta abbiamo l’occasione di rapportarci con l’altro, con qualcuno che anche solo leggermente si presenta comunque differente da noi … Come fossimo, in un certo senso, piccoli comparatisti.
E ci arricchiremo. Non siamo costretti a condividere ciò che non ci piace, ma possiamo ed è giusto rispettarlo.
E’ un po’ come quando sta nascendo un’amicizia con una persona. Qualcosa di lei ci piacerà, qualcosa forse meno. Possiamo accettare e condividere ciò che non ci piace se la voglia di averla come amico è più grande, oppure decidere di terminare lì la conoscenza, mantenendo rispetto…… continua

Lucia Palmioli

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le topoline

Martedì 10 Agosto 2010

Quasi tutte le favole e le belle storie per bambini iniziano con “C’era una volta”….
C’era una volta un gruppo di ragazze che sono venute a fare una esperienza di volontariato con LumbeLumbe nel villaggio di Cangumbe.
Caterina, Ilaria ed Antonella, principesse dei giochi e topoline sempre attive, hanno animato le giornate dei bambini, attivando un nuovo ramo del progetto “La casa delle Api”, costruire un gruppo di adolescenti locali che con l’animazione ed i giochi possano far crescere,in maniera diversa,tutti quei bambini che prima erano abbandonati per le vie del villaggio.
L’orco cattivo non c’è in questa storia ma la possibilità che questi bambini crescano senza affetti e senza giochi è reale.
Ogni giorno da quando sono qui ed oramai sono tanti mesi, vedo al mattino, molto presto, bambini di 3-5 anni che vagano per il villaggio come fantasmi, cercando l’uno con l’altro la compagnia e la sicurezza, i giochi si riducono ad un vecchio cerchione che fanno rotolare per la sabbia con un bastone di legno oppure giocano con una palla, fatta di vecchi sacchi della spazzatura, tenuti assieme con il nastro adesivo.
Nelle tre settimane che le principesse erano al villaggio, le cose sono cambiate,hanno organizzato il gruppo degli animatori, hanno trovato un responsabile, hanno dispensato latte in polvere e zucchero come aiuto alimentare e in special modo hanno portato un bella confusione nella casa dei volontari,cibo italiano e sensazioni dimenticate.
Il progetto di far giocare i bambini continuerà, gli animatori sono motivati, il supervisore anche,il capo-progetto dovrà periodicamente controllare e monitorare quello che fanno ma mancheranno fisicamente le ragazze che con la loro partenza hanno lasciato un grande vuoto nel villaggio.
C’era la fila il giorno che se ne sono andate, per sottolineare quanto la loro presenza è stata gradita da tutti,qui a Cangumbe.
Anch’io mi ero abituato a loro,dopo tanti mesi di convivenza con Massimo Capua l’apicoltore.
L’arrivo di Italo con le ragazze ha portato una bella nota di novità e non solo.
Per la prima volta dopo tanto tempo, il ritorno a “casa”, dopo aver accompagnato il gruppo all’aereoporto per la partenza verso l’Italia, è stato pesante, normalmente ho la sensazione di tornare verso casa e le stelle mi fanno compagnia lungo la pista che da Lwena conduce al villaggio di Cangumbe.
Questa volta, guardando le stelle,pensavo alle volte che siamo usciti nella notte per vedere questo spettacolo, Caterina un giorno mi ha detto che pare di essere dentro una bolla, una di quelle piccole bolle di plastica che se le agiti cade la neve, qui invece pare che cada il cielo.
Sono tornato a “casa”e tutti mi danno il ben tornato anche se non lo ammetto con gli altri,sono triste e stanco, vorrei andare subito a dormire ma una confusione alla porta attira la mia attenzione.
Esco per sgridare chi sta facendo questo “barulhio”confusione,trovo tanti bambini che tutti assieme chiedono,il gioco dell’oca o le macchinine o quando proietteremo di nuovo il film con l’animale che fa “ bip-bip”…tutto questo fa salire un sorriso al mio viso,la stanchezza passa,il pensiero va alle ragazze che se pur lontane qualcosa hanno lasciato in questo villaggio.
Guardando questi bimbi tutti assieme che chiedono solo di giocare,con qualcuno che da solo balla ed intona “la macchina del capo ha un buco nella gomma” penso che la favola continuerà, senza le principesse, senza l’orco ma con tanti principini che aspettano i loro giochi.
Claudio Tommasini
 

 

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… ci ha aiutato a non esprimere giudizi …..

Sabato 31 Luglio 2010

i quattro fratellini della sposa dormono indisturbati nonostante la musica ed il "barulho’ dei festeggiamenti

I ritmi della giornata a Cangumbe sono scanditi dalla natura…sembriamo immerse in un’altra epoca, in un contesto che risulterebbe troppo strano per la nostra quotidianità. La sveglia è alle prime ore dell’alba, al sorgere del sole; all’arrivo del tramonto pian piano tutto si ferma.
Di notte nel cielo c’è la luna che riesce a illuminare con la sua chiara luce tutto il paesaggio…i bambini così non smettono di correre né di giocare mentre gli adulti, davanti alle capanne, accendono il fuoco per cucinare il funji e la vita del villaggio, anche se silenziosamente, continua.
A volte il silenzio notturno viene interrotto da canti lontani che indicano un avvenimento importante, come una nascita, un funerale, un matrimonio.
La scorsa settimana siamo state invitate ad una festa di matrimonio. Per l’occasione il papà della sposa si era organizzato con musica, bevande coinvolgendo tutto il villaggio. Appena arrivate ci hanno accolto subito dentro la loro abitazione, dove stavano già dormendo sul pavimento quattro bambini. La cosa che ci ha maggiormente sorpreso è che nella confusione della festa non riuscivamo a individuare chi fosse la sposa. Quando ci è stata presentata dal padre la ragazza per la sua timidezza e la sua riservatezza non riusciva quasi a guardarci negli occhi. Nonostante l’incontro sia stato breve è scattato subito in noi il paragone con il nostro addio al nubilato, un momento in cui la sposa viene messa al centro dell’attenzione da tutte le persone care.
Questa forte differenza ci è stata poi confermata il giorno successivo, quando dopo un incontro pubblico tra il papà, la sposa e lo sposo, i parenti e gli inviati si sono incamminati verso un villaggio poco distante dove i due sposi sarebbero andati a vivere insieme.
L’aver assistito a questo avvenimento ha scatenato dentro di noi una serie di riflessioni e domande, in particolar modo riguardanti il rapporto di coppia, il modo di vivere l’amore, il senso dato al matrimonio. Ma l’essere consapevoli che esistono diverse culture, ognuna con profonde tradizioni e forte valenza, ci ha aiutato a non esprimere giudizi, a non arrivare ad una conclusione, ma a lasciare che gli interrogativi restino uno spunto di riflessione.
Caterina, Antonella, Ilaria

Caterina, Antonella ed Ilaria, tre splendide ragazze vestite della gioia di essere a Cangumbe

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il ricordo

Domenica 25 Luglio 2010

Sono le 8 del mattino: noi ragazze insieme a Italo, Claudio e il capo villaggio saliamo sul fuori-stada per andare al cimitero.
Ma da queste parti tutto ciò che per noi è assolutamente banale, immediato e quasi scontato diventa qualcosa di quasi irrangiungibile…la maggior parte delle persone del villaggio non è mai salita in una macchina e quindi in pochi secondi la parte posteriore del fuori-strada si riempie di bambini, ignari della meta da raggiungere ma felici di poter vivere l’emozione del “viaggio”.
Il percorso sarà breve ma sufficiente per intravedere nei loro volti la gioia per un’avventura estranea alla loro quotidianità.
Giunti al cancello del cimitero noi, insieme a tutti i bambini, seguiamo il Soba che ci accompagna alla tomba della moglie, morta circa cinque anni fa. L’unica parte del cimitero ripulita e non completamente ricoperta da piante, erbacce e sterpaglie è proprio quella in cui si trova la tomba. Notiamo subito che il capo villaggio con estrema attenzione e dedizione, anche davanti ai nostri occhi, se ne prende cura. Ma nella lapide manca la foto, presente invece nelle due tombe vicine appartenenti una ad una donna locale l’altra ad una donna portoghese Isabel Shudades Oliveira uccisa dall’ UNITA nel 1974.
E’ stato bello poter ricondurre a una immagine queste due donne attraverso la foto sulle loro lapidi.
A volte confidiamo ad una foto di mantenere viva la memoria di una persona cara, come se grazie ad essa il ricordo non possa svanire. Guardando le foto delle persone che non ci sono più spesso abbiamo la possibilità di tornare indietro nel tempo e di vivere alcuni istanti come fossero presenti.
Qui a Cangumbe ricordare il viso di chi non c’è più rimane difficile. Il trascorrere del tempo inevitabilmente affievolisce i tratti del volto.
Ma da oggi anche nella tomba della moglie del saba c’è una foto a ricordarla.
Durante la visita, infatti, è stata attaccata alla lapide una foto di lei che Italo ha rintracciato tra le tante foto fatte tempo fà. Impossibile descrivere l’emozione negli occhi del Soba. Emozione forse avvertita anche da tutti i bambini che aveva intorno, che inspiegabilmente sono rimasti in silenzio ad osservare…un momento di profondo mistero che ancora ci accompagna.
Ilaria, Antonella

 

 

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tra la vita e la morte

Sabato 24 Luglio 2010

Quante volte ho scorso tra i rapporti aggiornati delle varie organizzazioni internazionali le percentuali delle donne che muoiono di parto nei paesi in via di sviluppo. Numeri che colpiscono per la loro entità, vengono presi, utilizzati per giustificare interventi, “maneggiati”per definire le finalità dei progetti…ma quali storie si celano dietro queste fredde tabelle?
Ieri abbiamo visitato il centro di salute di Cankumbe, una costruzione sul ciglio della strada principale del villaggio, a cui è possibile accedere scalando gradoni impolverati tra persone sedute in attesa. Ci si ritrova in una sala in penombra, intorno quattro stanze, spoglie e desolate e inconsapevolmente alla ricerca di oggetti e strumenti che possano consentire di riconoscere questo posto come un ambulatorio. Il personale è in camice bianco, preparato ad accoglierci e orgoglioso di quanto può descriverci. Ma immediatamente si impongono le differenze: mancanza di farmaci e di apparati diagnostici, personale limitato, distanze enormi per raggiungere il centro. Difficile operare per poter soddisfare i bisogni di quanti vi si rivolgono.
Consegnamo i farmaci portati dall’Italia, negli sguardi degli operatori sorpresa e incredulità.
Non tarda l’urgenza di utilizzarli. Una donna ha appena partorito e ha un’emorrargia. Rischia la vita. E’ ricoverata in una delle stanze, tre letti di cui due senza materasso. Ci sono alcuni familiari, due donne e un ragazzo, il suo compagno. In un fagottino di coperte, il neonato. Non c’è concitazione o allarmismo. Solo rassegnazione. Una silenziosa rassegnazione. Assordante per chi come noi pensa che ci sia sempre qualcosa che si può fare. Spieghiamo le modalità di assunzione di un farmaco che provvidenzialmente abbiamo con noi. Posologia, modalità di assunzione..La mamma con una flebo attaccata ad un braccio, apre gli occhi e li richiude. Il dolore pervade la stanza e si scontra con la nostra ansia. Usciamo dal centro per ritornare alla casa dei volontari. Un groviglio di emozioni ci accompagna…e un profondo senso di ingiustizia, perchè..perchè? Una mamma, un bambino, un padre…neonati in una parte del mondo dove la speranza è un privilegio.
Al chiaro di una luna luminosa e sorniona, la sera ritorno al centro per sapere come sta la mamma, una ragazza di diciassette anni, alla prima gravidanza. Mi accoglie il responsabile, il farmaco è stato efficace, la situazione si è normalizzata e la mamma sta riposando. I familiari sono tutti lì, intorno, vicini, insieme. Una rete di sostegno e protezione, un altro farmaco fondamentale per la dolce mamma…
Il giorno dopo arrivo nella tarda mattinata, sono fortunata ad incontrare la mamma, la stanno dimettendo. E’ seduta sul letto rifatto, con accanto le poche cose pronte per il ritorno a casa, e in braccio il fagottino di coperte. Mi siedo accanto e scorgo il visino del bimbo, dorme sereno. La ragazza mi guarda, nei suoi occhi ancora la sofferenza. Mi fa un cenno..il papà mi “traduce” in parole..è un invito a prendere in braccio il bimbo. Mi stende con cura il fagottino di coperte e lo sistema tra le mie braccia, pronte ma esitanti..Una folla di pensieri attraversa la mia mente, e velocemente si allontana..resta il contatto, la vicinanza, il sentirsi parte di una storia sfiorata che scorrerà altrove, con i suoi ritmi, tempi, luci e ombre…di nuovo il bambino è nelle braccia della mamma, saluto la famiglia, consapevole di non poter esprimere come avrei desiderato il mio senso di gratitudine per avermi accolto in un momento tanto critico.
Non è un lieto fine…la mente torna alle tabelle, ai numeri, a quante mamme e famiglie sono appese tra la vita e la morte senza nessuna possibilità di accesso alle cure mediche…il cuore resta ancora con questa famiglia angolana, stretto nel fagottino di coperte..

Caterina Susanna Cognigni
 

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le parole non bastano

Venerdì 23 Luglio 2010

Forse le parole che ci hanno accompagnato durante questi mesi sembravano soddisfare la nostra voglia di conoscere realtà distanti e completamente diverse da noi. Forse le immagini che più volte ci sono state proposte sembravano capaci di trasmetterci la complessità di terre dilaniate dalla povertà. Forse le testimonianze che abbiamo raccolto sembravano sufficienti per immedesimersi nel ruolo di volontarie. Forse credevamo di essere pronte.
Ma…come si può essere pronte davanti a dei bambini che giocano, ridono, piangono, vivono di e nell’immondizia? La lixeria è questo: un tumore inarrestabile, un girone dell’inferno,un incubo reale.
Districandoci tra i cuniculi, schivando rifiuti e fogne nauseabonde, arrestando il respiro, accelerando il passo, mimetizzando i nostri sguardi increduli alla ricerca di un angolo di sollievo, ci siamo chieste: “Come può essere questa la normalità? Come non arrendersi difronte a tutto questo?” Una risposta positiva e incoraggiante è giunta dall’aver visto l’opera salesiana di Padre Marcelo e Padre Roberto con la comunità della lixeria. La loro instancabile motivazione nell’avvicinarsi all’altro, con fiducia e amore, ci hanno dimostrato come, anche nell’inferno, si possano trovare delle risorse e una sorgente di cambiamento.
Salutiamo la lixeria…Cangumbe ci aspetta!!!
Antonella, Caterina, Ilaria

 

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