Monti azzurri

N’dalatando

Lunedì 11 Agosto 2008

  

11 agosto 2008

Qui a N’daladando le case non sono come quelle che siamo abituati a vedere In Italia. Il colore dominante è il rosso, un rossiccio terroso che avvolge tutto, prodotti umani e naturali. La terra è l’elemento che al primo colpo d’occhio caratterizza ciò che ci circonda. Anche nella parte centrale della città, dove le strade sono asfaltate, non è il cemento a prevalere, la terra è ovunque e la polvere tende ad inghiottire ed inglobare quelle deboli strisce costruite dall’uomo. L’ambiente naturale non appare domato, imbrigliato dalle opere dell’uomo, ma anzi è il sostrato da cui sorgono le case, fatte per la maggior parte di mattoni di fango. Una situazione che per chi è abituato ad ambienti urbani ampiamente snaturalizzati è spiazzante. Noi vediamo in essa essenzialmente povertà, la consideriamo come una condizione invivibile, quasi infernale. Eppure la gente vive, ride, balla, e certamente soffre. Ora non sta che a loro decidere come, e se, sviluppare le proprie potenzialità, che sono tante ed emergono immediatamente quando si parla con un angolano. A noi non resta che essere di supporto, se ci viene richiesto e ne abbiamo la capacità.

Paolo Straffi 

 

 

Il primo giorno qui a N’dalatando ci accoglie con un cielo grigio.

Ed e’ strano perche’ l’Africa fa pensare al sole che brucia. Eh gia’… dall’Italia, pensando all’Africa, sono tante le immagini che saltano in mente per associazione immediata… e generalizzata: uomini dalla pelle nera, povertà, deserto arido, bambini affamati e malati, polvere e capanne al posto di case.

E’ un luogo che spaventa e affascina.

Poi un giorno arrivi qui.

Per un po’ cerchi quello che avevi immaginato e puoi essere soddisfatto, perché alcune di quelle cose le trovi.

Poi, pian piano, inizi a sorprenderti.

Ti sorprende che la fame non impedisce ai bambini di giocare a calcio per ore, di gridare, di stuzzicarti “per giocare a prenderti” e, quando tu sei ormai sfinito, di chiederti: “um outro jogo!”, con un bel sorriso stampato sul viso impolverato.

Ti sorprendono le donne alla messa della domenica e la dignità con cui indossano quelli che noi non chiameremmo nemmeno vestiti. I teli avvolti intorno al corpo e al capo hanno però colori vivaci, così come vivaci e gioiose sono le loro voci nei canti di lode a Dio.

Ti sorprendono i giovani animatori dell’oratorio e l’impegno che mettono nel loro lavoro.

Ti sorprende il dono di sè dei missionari che vivono qui.

Allora mi rendo conto che la vita in questo posto non risponde all’idea che ci si fa’ dall’Italia.

Imperativamente fa seguito una domanda difficile: “Cosa faccio qui?”. La risposta cammina per una strada incerta, come sono le strade qui a N’dalatando, e mi si avvicina con le parole di Padre Cassoma che proprio stamattina ci raccontava che qui si dice dell’ospite che e’ come una nuvola: arriva e va via. Ma quando arriva può portare con sé la pioggia e questa permette alla terra di dare frutto…

Guardare il cielo grigio stamattina fa un effetto un po’ diverso.

Fabiola Abbati

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La Prima Giornata a Lwena

Lunedì 11 Agosto 2008

   

La  prima domenica a Lwena abbiamo partecipato alla messa all’aperto, ma davvero aperta a tutto il popolo, dato che è stato inaugurato dal  Vescovo l’ano Paulino, ed è stata l’unica messa del giorno in tutta Lwena.

Tante e tante persone dalla mattina presto si sono avviate verso la chiesa di “Nossa Senhora da Victoria”, alcuni con delle moto, ma la maggior parte con due ore di cammino a piedi.

Organizzazione spettacolare: la celebrazione è stata aperta dall’arrivo di tante donne che indossavano una t-sheart di Don Bosco ed una gonna nera…. con un passo di danza che accarezzava dolcemente la sabbia sulla quale camminavamo.

Tutte le varie letture e la celebrazione sono state ascoltate ed osservate da innumerevoli orecchie attente ed occhi profondi neri, di grandi e piccoli, uomini e donne che hanno riempito un ampio spazio fuori dalla chiesa. Nonostante la durata di due ore e mezzo potrei giurare che nessuno è andato via per noia anzi! ad ogni canto nuovo iniziato dalle donne, c’erano sempre più mani che accompagnavano il ritmo ed anche noi, Italo, Daniele, io ed alcuni ragazzi portoghesi volontari abbiamo tentato di seguire il loro ritmo. Dopo vari tentativi è stato semplice seguire il loro battito di mani, ma loro contemporanee muovevano anche il corpo in modo coordinato! E noi? O seguivamo il ritmo del corpo o delle mani o… bisognerebbe partecipare qualche domenica in più con loro a messa!

Il momento dell’offertorio, organizzato nei passi e nelle musiche è stato un vero e proprio incontro tra i frutti prodotti dal popolo e la chiesa che li riceveva! Frutti tra i quali ortaggi, verdure, pane… madri con i loro bambini tra le braccia nati da pochi mesi…bambini…uau!!! per la seconda volta vi giuro di non aver mai visto, né pensato che dell’offertorio potessero far parte dei neonati.

Tra colori sgargianti dei vestiti indossati dal popolo di Lwena, passi di danza, canti, preghiere, più volte mi sono accorta di essere osservata… tra tutta questa organizzazione così perfetta, gradevole e piena di vita forse la cosa diversa ero io. Spesso molti avranno pensato che lì dove manca una catena di montaggio, fabbriche, monumenti, forse non c’è civiltà!? non c’è capacità organizzativa  e di produzione!? Vi assicuro che la prima ad essere sorpresa sono stata anche io… tra case fatte di argilla e sterpaglie, sparpagliate e lontane tra loro oggi in un unico posto centinaia di persone mi hanno, o meglio, ci hanno resi partecipi delle loro usanze, dei loro riti.. e questa non si chiama cultura? Ho imparato tante cose nuove e non mi è servito nessun libro!     

Mariangela Capuzzi

  

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ate’ amanha

Sabato 9 Agosto 2008

  

 

… appena sono riuscita a vedere dall’aereo la "baraccopoli" tanto nominata in questi mesi di corso con LumbeLumbe ho pensato:"sono davvero in Africa!"

Oggi 9 agosto e’ il primero dia di permanenza in Angola e dopo la sveglia molto prestro siamo stati nella tanto nominata "lixeira"… e’ proprio vero, in questa parte di mondo migliaia di "case" sono costruite su terra rossa… ed immondizia.. immondizia avanti, dietro, a destra, sinistra degli occhi e.. sotto i piedi nudi di tanti preziosi bambini stamattina il mio pensiero e’ stato "indossare scarpe sicure, comode che mi avrebbero protetta".. e loro??? questi bambini cosa si saranno chiesti? cosa si chiederanno ogni mattina? se avranno acqua..se mangeranno… scalzi non importa.

Tutti gli odori, tutte le immagini sono state molto forti ed intense, ma appena mi sono fermata un istante a riflettere ho pensato "mi sembra di essere in un film!", tante volte ho visto documentari in tv, ho visto foto, forse anche oggi stavo facendo la stessa cosa.. ed invece.. sorridendo un bambino mi ha detto: "ate’ amanha!"..quel bambino mi ha detto "a domani"…quel bambino ha parlato con me, stavolta NON e’ un film!.. ed io ho risposto "ate amanha!".. mio dio cosa ho risposto? domani dove saro’ ? e con quale probabilita’ tornero’ qui’? e pur tornando cosa potrò fare per lui?… tante domande,forse retoriche ma che risuonano nella mia testa anche ora che e’ sera… e domani sta arrivando.

Insieme a questi dubbi e non trovando subito una risposta mi rallegra l’aver visto il sorriso di quel bambino quando gli ho mandato un bacio con la mano.. un istante prezioso che da oggi portero’ nella mia vita.

Grazie LumbeLumbe!e…ate’ amanha

Mariangela Capuzzi

 

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Diario di bordo – giorno 6

Mercoledì 9 Aprile 2008

Diario di bordo – giorno 6
Anche questo sabato LumbeLumbe tira fuori dalla manica un bel pezzo da novanta. Dà l’idea di un ragazzino scanzonato un po’cresciuto a vederlo da lontano, poi prende la parola e acquista immediatamente credibilità. Funzionario della FAO, responsabile dei programmi di sicurezza alimentare nei territori colpiti dal conflitto, non disdegna incarichi di rilievo nelle tavole di negoziazione della pace, signore e signori, Luca Alinovi.
A dir la verità, quell’aria tra il trasognato e l’imprudente tace uno sguardo realista e disincantato sul mondo, tanto crudo che a tratti sembra impietoso. Non è uno di quelli che favoleggiano sull’Africa e i suoi segreti. Ti avverte che la realtà è una cosa molto dura, ti invita a immergerti in essa completamente, ad esporti, a prendere malattie o infezioni, a stare un giorno senza mangiare, a sentirti male come non ti eri mai sentito prima. Dice a te che hai sempre sognato l’Africa e la sua gente, a te che pensavi di poter fare qualcosa, che il tuo non è altro che un “fardello dell’uomo bianco” mascherato da umanità. Ti mette in guardia dal credere che il tuo cuore caldo possa bastare. Non era quello che volevi sentirti dire. Puoi anche detestarlo sul momento, perché ha smontato senza indulgenza tutto il tuo castello in aria e probabilmente ne va fiero, ma non puoi non concordare con lui che chi si occupa di sviluppo non può permettersi il lusso dell’errore, la posta in gioco è troppo alta, si scommette sulla vita delle persone. L’azzardo non è contemplabile.
Sa bene quali effetti perversi può generare una scelta non meditata. In Sudan, per esempio, anni di aiuti alimentari rischiano di innescare esiti inattesi. Anzitutto l’aiuto alimentare, non potendo, il più delle volte, essere distribuito equamente, potenzia un meccanismo di “selezione naturale” che incrementa la vulnerabilità dei più deboli; quando si corre per accaparrarsi le provviste di cibo lanciate dagli aerei, chi arriva per primo è quasi sempre il più sano. Con l’aggravante poi di mettere a repentaglio la sopravvivenza di sistemi tradizionali di reti solidali che si fondano sul principio di responsabilità morale del ricco sul povero.
Non solo l’assistenzialismo, ma soprattutto la guerra oggi scompagina ogni ordine tradizionale costituito. Generazioni intere di bambini si sono perse l’infanzia, la scuola, gli insegnamenti informali, e, dice Luca, “la gente si abitua a usare il Kalashnikov come una carta di credito”, fomentando un circolo vizioso di instabilità. A dispetto degli spazi ridotti che i conflitti del continente nero occupano nelle prime pagine dei nostri quotidiani, l’Africa è una polveriera di tensioni latenti o già esplose, per la maggior parte accese da contese sulle risorse. Verso cui l’Occidente rivolge le proprie mire. È lecito sospettare che, quando il petrolio costava nei mercati internazionali 24 $ al barile e alcune compagnie americane potevano acquistarlo a 17, sfruttando il conflitto angolano, queste compagnie potessero nutrire un certo interesse a mantenere acceso il conflitto. Lo stesso interesse che potevano nutrire alcuni produttori di armi che scambiavano attrezzature da guerra contro coltan* con i guerriglieri congolesi. Nulla da invidiare al vecchio colonialismo.
D’altronde, il mondo va così. Anche tu, che non sei un signore della guerra, che non hai potere su nessuna risorsa, che non ti senti implicato in cospirazioni ai danni dell’altro, nel tuo piccolo - ricorda Luca - fatichi  incredibilmente ad ammettere che questo altro, l’africano, ha molto più chiaro di te il mondo che lui vede.

Valentina Francia

(*) Sabbia nera leggermente radioattiva. I metalli che la compongono sono molto duri, densi, resistenti al calore e alla corrosione e si prestano a numerose applicazioni nei settori dell’elettronica, degli equipaggiamenti chimici e del mercato automobilistico. Caratteristiche che rendono il coltan una sostanza molto preziosa.

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Diario di Bordo - giorno 5

Venerdì 28 Marzo 2008

Diario di bordo – giorno 5
Pensavamo tutti di sapere quale fosse il mestiere più vecchio del mondo, beh, probabilmente ci sbagliavamo. C’è chi dissente dalla risposta scontata e accorda il primato alla cartografia. Da che mondo é mondo, per necessità o ambizione, l’uomo si adopera per dominare la terra che abita. Primo passo conoscerla, poi rappresentarla. Inizia così, con le prime mappe rudimentali raffiguranti la collocazione spaziale di punti strategici di interesse, l’incessante tentativo dell’uomo di ricondurre del mondo ad un modello prevedibile.
E così, con questo esordio, inizia anche la giornata di sabato 15 marzo a Monte San Martino, sotto la guida di un infaticabile Petronio Malagoli, Generale del Genio Aeronautico in pensione; uno che, se il tempo non fosse tiranno, continuerebbe per giorni a parlare di cartografia, fotointerpretazione, geoidi, punti di emanazione, strumenti di rilevazione. Uno che, a 75 anni, “non ancora compiuti” – ci tiene a precisare – si infervora ancora come un bambino e confessa che vive ogni giorno con la curiosità di sapere come andrà a finire. Tenere il suo passo è impresa ardua: spazia da Eratostene ai fratelli Montgolfier come se nulla fosse, e trova anche l’occasione di spiegare perché le bombe chirurgiche americane si siano schiantate contro obiettivi civili. Una spiegazione tanto banale quanto davvero triste: un esercito di cervelli illuminati ha semplicemente trascurato lo scarto derivante dall’utilizzo di un differente sistema di riferimento nelle mappe irachene. Ssi voleva colpire un obiettivo militare e invece si è centrato un ospedale. Non so se sia peggio l’intenzionalità o la noncuranza.
Certo a volte l’imprevisto produce buone cose. Nasce per caso la fotografia aerea. Basta un tale Nadar che sale a bordo di un pallone aerostatico con una macchina fotografica e torna a terra con la prima foto aerea di Parigi, suscitando il perspicace interesse di esattori delle tasse e militari. Pur rifiutando la collaborazione con il Ministro della guerra francese che vuole impiegare la sua scoperta a scopi bellici, Nadar non potrà impedire la futura applicazione militare dell’aerofotografia, che la Prima Guerra Mondiale consacrerà definitivamente. L’ennesima conferma che la guerra aziona più congegni di quanto non faccia la pace. Poi, magari, una volta accantonate le armi, ci si accorge che alcune invenzioni possono anche salvare delle vite. È il caso della fotografia messa al servizio della criminologia. Il Generale rivela con nonchalance di aver partecipato, in Aspromonte, alle indagini per il sequestro Casella; in quella occasione si tentò di localizzarne la posizione sfruttando la firma spettrale del corpo umano, rilevabile con un particolare tipo di fotografia. 
Mentre andiamo a piedi verso la Chiesa che ospita i capolavori del Crivelli, noi camminiamo a passo svelto, lui rimane un po’ indietro, ma ci scherza su, dice di essere partito per ultimo. Alla fine arriva e non si perde una parola. Ne ha viste di cose il Generale. La cosa bella è che ha tanta voglia di vederne ancora.
Valentina Francia

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Diario di bordo - giorno 4

Giovedì 13 Marzo 2008

Diario di bordo – giorno 4

È davvero uno spettacolo vedere Mons. Jean-Marie Mpendawatu che si dimena tra le sue due anime, quella africana e quella occidentale. Confesso che pendo più per la prima e non aspetto altro che lui si arrenda alle sue radici e inizi a raccontare.

Ci dice del vino di banane, prelibatezza rara, che ritrova ogni volta che torna al suo Paese. Prima di berlo, se ne versano alcune gocce in terra per rinsaldare il legame di condivisione con le persone care che ci hanno preceduti, in omaggio a quella visione della vita, a noi tanto lontana, che guarda al presente con la luce del passato. “Dopo aver tanto viaggiato” ammette “mi sento veramente me stesso quando compio questo gesto di comunione con chi non c’è più”. Mi conforta sapere che il nostro mondo non ha risucchiato i suoi saperi antichi.

Ci  parla del suo sogno, che è quello, una volta concluso il suo incarico in Vaticano, di tornare tra la sua gente e aprire una scuola di cucina, dove insegnare alle donne a preparare cibi nutrizionalmente equilibrati e a sfruttare le risorse del proprio territorio. Crescono tanti carciofi in Congo che nessuno cucina, perché nessuno sa che sono commestibili. È un tema ricorrente quello delle ricchezze possedute inconsapevolmente. Si dice che l’Angola sia il “paradiso dove gli angeli muoiono di fame”, perché la gente dorme sui diamanti senza sapere cosa siano. Ne è emblema quel bambino che Mons. Mpendawatu racconta di aver incontrato in uno dei tanti viaggi sulla strada verso casa; quel bambino che se ne va in giro con la sua scimmietta sulle spalle, che tiene all’animale come ad un amico, che ignora totalmente quanto pregiata sia.

Che dire invece di quanto valgono 10 capretti? Una sposa. E la sua prole. In un sistema patrilineare come quello che vige nella sua tribù di provenienza, una volta che la dote è stata depositata presso la famiglia della sposa, i figli nati dal matrimonio appartengono al clan del padre. La contrattazione pre-matrimoniale è attività assai complessa; in linea di massima la sposa ha poca voce in capitolo, negozia per lei la sua famiglia, che, prima di autorizzare l’unione, indaga sulla reputazione e sulla storia della famiglia del pretendente e lo sottopone a severa inquisizione. È probabile poi che i 10 capretti ceduti come dote saranno la moneta di transazione di un nuovo matrimonio, e così via.

La famiglia africana si dilata in una fitta rete di parentele autorevoli. Un proverbio africano insegna che “chi non ha uno zio non diventa re”, perché compete agli zii tramandare il patrimonio della propria cultura alle nuove generazioni. Prima che la ragazza si sposi, ed esempio, la zia paterna la istruisce sulla farmacopea tradizionale e sulle responsabilità coniugali. Tutto, in questo sistema, insegue il moto incessante della vita, che si riceve e si trasmette. Una famiglia senza figli è un distorsione in questo motore di passaggi. Sulla lapide di un uomo senza figli si scrive che è “un tizzone spento”, un fuoco che non ha alimentato la comunità. Tra i suoi tanti nomi, Jean-Marie Mpendawatu porta quello di suo zio paterno, soldato senza figli. Dietro questo nome ci sono una storia e una filosofia. La storia vuole che da piccolo sia mandato a stare con questo zio per evitargli il disonore di non avere una discendenza. La filosofia sta nel fatto che, ora che porta il suo nome, si crede che suo zio sopravviva in lui. Come questo, tutti gli altri suoi nomi nascondono un’identità.

Un giorno, tornato da poco in Congo dopo il dottorato in Italia, uno zio gli chiede cosa abbia portato per lui. Jean-Marie gli regala l’unica banconota che ha in tasca, 100 dollari. Lo zio per una settimana fa il gran signore, si abbandona ai festeggiamenti e lascia il lavoro. I parenti se la prendono con Jean-Marie. Finiti i 100 dollari tutto torna nella norma. Questo per dire, a noi che pensiamo con i nostri schemi di pensiero, che è importante conoscere “per evitare di costruire cattedrali nel deserto”.

Valentina Francia

 

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Sabato 8 Marzo 2008

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Visita alla FAO

Sabato 8 Marzo 2008

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Non un giorno qualunque

25 febbraio 2008

Ore 10.00. Appuntamento a Roma, viale delle Terme di Caracalla n. 1, sede della FAO. Siamo ancora imbottigliati nel traffico di Roma, con cinque paia di occhi puntati su cartelli stradali e motorini che svicolano in tutte le direzioni.

Ore 10.15. Giriamo a vuoto intorno alle Terme. Italo chiama di nuovo. Manchiamo solo noi.

Ore 10.25. Finalmente ci siamo. Inizia il nostro tour. Gabriele mi preannuncia un’esperienza da non dimenticare. Io non ho ancora afferrato che siamo nella sede centrale della FAO, rispondo “anche girare per Roma in macchina è un’esperienza che non dimenticherò”. Mi preparo a catturare ogni cosa. L’immagine del tempio si fa pian piano strada.

L’edificio è un dedalo intricato di corridoi, non ho idea di quanto sia grande, né di quante persone ci camminino dentro. Fernanda fa da padrona di casa. Ci guida verso una sala riunioni. Fuori c’è scritto: Salle du Liban. La porta di fronte è invece intitolata al Messico. Inizio a capire che ci deve essere un legame tra il nome delle sale e gli Stati. Nemmeno il tempo di formulare la domanda che Fernanda ci dice che le sale che la FAO ospita (ad eccezione delle sale Plenaria, Rossa e Verde) sono state donate dagli Stati di cui portano il nome, i quali solitamente curano anche l’allestimento interno.

Prendiamo posto. Fernanda guadagna la seduta centrale, quella in cui siede il chairperson, ovvero la figura che coordina e dirige i lavori nel corso di una discussione. Noi visitatori, circa una ventina, ce ne stiamo seduti tutti intorno a ferro di cavallo. Mi attrae incredibilmente la strumentazione; ogni postazione ha un microfono, un blocco di fogli ordinati in un raccoglitore FAO e una sorta di mouse in miniatura, con un incavo nella parte inferiore, che solo alla fine capisco essere un’apparecchiatura acustica per la traduzione simultanea. Questa sala, che contiene al massimo una trentina di posti, ha quattro cabine di traduzione che si intravedono dietro i pannelli scuri delle pareti laterali. Ogni traduttore lavora per un massimo di 45 minuti consecutivi, per poi riprendere solo dopo una pausa di altri 45 minuti, quindi, se si prevedono tempi più lunghi, la seduta dovrà essere coperta da due traduttori. Adoro questi dettagli. Adoro poter mettere il naso in tutti gli ingranaggi della macchina, soprattutto quelli piccoli e velati.

Per esempio, vorrei tanto sapere come passa la giornata Fernanda. Lei tira fuori dalla tasca il suo blackberry, che ogni giorno le ricorda gli impegni quotidiani. Ha già dimenticato la prima incombenza di oggi: riservare il taxi per stasera, che la porterà allo studio televisivo in cui sarà ospite di un programma condotto da Claudio Lippi. La tabella di marcia poi prevede la nostra visita, un impegno alle 2 del pomeriggio, e, subito dopo, una video conferenza. Questa la giornata di Fernanda di oggi, 25 febbraio 2008. Immagino che ogni giorno porti con sé i più disparati appuntamenti. Curiosità sugli orari di lavoro: si entra in genere alle 8.30 (figli permettendo), non si sa quando se ne uscirà. Si può rimanere nell’edificio, senza richiedere un permesso speciale, fino alle 11 di sera, ma ci si possono passare anche nottate in bianco a portare a termine scadenze. La posta elettronica è lo strumento principe di corrispondenza; un funzionario del calibro di Fernanda riceve mediamente 300 e-mail al giorno. Ma naturalmente, ha una segretaria. E ci tiene molto a rimarcare il lavoro di chi opera dietro la grande facciata. Per esempio, dice, quando si accoglie una delegazione in una sala come quella in cui siamo noi, niente può essere lasciato al caso; diplomazia vuole che ogni particolare sia curato nel rispetto di quella delegazione. Magari nessuno si chiederà mai chi ha predisposto i segnaposto, ma c’è una mano dietro ogni fatto apparentemente scontato. Mi accorgo subito, appena lasciamo la Salle du Liban, che la forma qui ha il suo peso. Passo di fronte alla Sala Mexico e incrocio un carrello con teiere e cornetti fumanti. Riunione in corso.

La giornata ci riserva l’attrazione principale, la Sala Plenaria, quella in cui si riuniscono tutti i rappresentanti degli Stati membri, quella in cui si decretano le decisioni più importanti. Uno spazio enorme. Più di mille sedute, bandiere di ciascuno stato, diverse cabine di traduzione, un soffitto a dir poco affascinante. È un po’ come essere in un Parlamento mondiale, in cui Israele e Palestina sono seduti allo stesso tavolo. In realtà, chiarisce il nostro accompagnatore, le relazioni di ostilità tra Stati in conflitto impongono uno sforzo di accortezza nel far sì che i rispettivi delegati non siedano vicini. Diplomazia è anche questo.

Tutto si svolge come in qualsiasi altro centro decisionale: c’è un presidente che regola la discussione, ci sono tempi di intervento circoscritti (segnalati dalle indicazioni di un semaforo che sollecita alle conclusioni), si vota. Solo si parlano tantissime lingue. La maggior parte delle decisioni vengono prese a maggioranza semplice, per alcune questioni di particolare rilevanza si ricorre a maggioranze qualificate. Anche qui la tecnologia ha scalzato metodi di espressione del voto ormai obsoleti. Basta un click sul tasto corrispondente alla scelta di voto (favorevole, contrario, astenuto) e le maggioranze vengono elaborate elettronicamente. Profaniamo il posto di comando per curiosare e fare foto. Fa un certo effetto stare qui. Dà la misura del potere.

Lasciamo la Sala Plenaria, una fugace sosta nella Sala Verde; bella, ma ormai non c’è più gara. Le seduzioni della FAO non finiscono qui: dobbiamo ancora salire al piano attico, dove ci attende quella che Fernanda definisce “sicuramente la più bella terrazza di Roma”, una vista che non si coglie con uno sguardo solo. Si sentono parlare le lingue più diverse, nessuno ci fa caso, tranne noi.

Ho ancora un ultimo capriccio da appagare: sbirciare nell’ufficio di Fernanda. Lei ci porta con piacere; non è come lo immaginavo, lo pensavo grande ed austero, invece è piuttosto familiare. Un burqa, la sua collezione di zappe, qualche singolare ricordo di viaggio riassumono i suoi venti anni spesi lì. Rubo un’ultima immagine, il mondo visto da dentro un burqa. Tempo scaduto. Ora di salutarsi.

Valentina, Fernanda ed il Burka

Valentina Fernanda ed il Burqua

Non c’è grande voglia di tornarsene a casa. Mi pare di leggere nei visi dei miei compagni quello che sento anch’io: una specie di nostalgia precoce, un rimpianto per non aver carpito abbastanza o un desiderio di carpire di più. Sappiamo tutti di aver varcato una soglia che difficilmente varcheremo ancora.

Valentina Francia

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Diario di bordo n° 3

Mercoledì 27 Febbraio 2008

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Diario di bordo – giorno 3

Non è la prima volta che vedo Monsignor Mpendawatu, per noi ormai Jean-marie; non mi è passato inosservato in occasione del primo incontro, l’unico volto nero e sorridente nel bel mezzo di una parata di sindaci inorgogliti. C’è qualcosa in lui che ho colto subito: il sorriso. Parla col sorriso. Qualche tempo fa un amico mi ha fatto notare che ci sono persone che parlano mentre continuano a sorridere. Così è Jean-marie. Mi perdo un po’ dietro questi denti bianchi in mostra, dietro queste labbra piene che li contornano, dietro queste mani che disegnano gesti inattesi. Lo guardo e non posso non pensare a una delle prime cose che gli ho sentito dire. Mi aveva molto colpito quel ritratto dell’Africa che risponde al tragico e al comico con la stessa manifestazione espressiva: il riso. Mi sembra proprio di poterci raffigurare dentro anche Jean-Marie. In fondo non dice cose di cui stare allegri: pandemie globali inevitabili, donne che muoiono per il parto, bambine che subiscono la mutilazione genitale, milioni di persone che soffrono la fame, AIDS dilagante, industrie farmaceutiche immuni da responsabilità sociali. Ma forse è quel panvitalismo squisitamente africano di cui parla ad animarlo, quella filosofia di viscerale devozione alla vita e alle sue forme che vince su tutte le peggiori previsioni. È strano come i diritti umani che riempiono convenzioni e dibattiti internazionali si concretizzino poi in modi così diversi nei diversi uomini del mondo, tutti comunque membri di una unica famiglia umana (come ribadisce la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948). Ma sarebbe allo stesso tempo anacronistico pensare di poter prescindere dalla considerazione delle diversità. La stessa definizione di salute adottata dall’OMS prospetta questa sensibilità: salute intesa, non come mera assenza di malattia o infermità, quanto piuttosto come “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”, che si estrinsecherà in ciascun contesto in modo conforme alle diverse concezioni di piena armonia. L’appartenenza culturale ad un paradigma non sempre e non necessariamente costituisce un ostacolo al miglioramento di determinate condizioni. Per esempio, ci racconta Jean-Marie, nella tribù da cui proviene, vige la consuetudine, tramandata di generazione in generazione, per cui ci si astiene da rapporti sessuali nel periodo immediatamente successivo al parto, di modo che le nascite risultano distanziate le une dalle altre. Per esempio, continua Jean-Marie, non sarebbe giusto sottovalutare l’importanza di strategie cristallizzate di trasmissione dei saperi della collettività che perdurano in molte tribù africane; non banalizziamo la funzione sociale che gli anziani assolvono nella “scuola della foresta” solo perché il nome evoca in noi qualcosa di primitivo, chiediamoci piuttosto se i “nostri” meccanismi di socializzazione sanno fare altrettanto. Domandiamoci perché non ci capiterà di imbatterci nelle “nostre” chiese in un bambino che canta e balla con la nonna, mentre questo bambino lo vedremo in Africa. Non lasciamoci imprigionare nel “monismo culturale occidentale”, guardiamo più in là del nostro naso. D’altra parte ognuno ha i propri mali con cui fare i conti: la società dell’opulenza vive paradossi neanche lontanamente immaginabili in situazioni di indigenza. Io sono solita fare bilanci. Che cosa ho imparato oggi? Che devo dubitare.

Valentina Francia

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Diario di Bordo- Giorno 2

Giovedì 14 Febbraio 2008

 

 

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Diario di bordo “Monti Azzurri” - Giorno 2

 
 
“Il cielo come tetto e la terra polverosa come pavimento”, l’Africa secondo Maurizio Di Schino, giornalista di Rai SAT 2000, che ricorda il primo approccio con il continente nero come uno scontro con le rappresentazioni romanzate dell’Africa che ciascuno si è costruito. Un viaggio, il suo, all’insegna della decostruzione degli stereotipi, verso la scoperta di un mondo plurale che le categorie del pensiero occidentale faticano ad inquadrare.Prima precisazione: l’Africa conta 53 Stati, culture e subculture molteplici, tribù, clan, uomini, donne e bambini portatori di universi differenti e non riducibili, se non al prezzo di una drastica restrizione, ad un denominatore comune.Ad ascoltarlo mentre prova a raccontare il Ruanda uscito dal genocidio o l’Angola alle prese con distese di territori da sminare, mi viene da pensare ai nostri giorni della memoria che, anno dopo anno, ci richiamano alla mente gli orrori del nostro passato. Nessuno mi aveva detto prima che, se facessi un paragone, un solo giorno di massacri in Ruanda equivarrebbe a 3 cadute delle nostre Twin Towers, che, moltiplicati per cento giorni di atrocità, fanno 300 volte il numero di vittime che commemoriamo ogni 11 settembre. 300 volte che passano totalmente sotto silenzio alle nostre latitudini. E dopo questa fotografia disorientante, pian piano prende forma l’Africa che ormai non ti aspettavi più: quella che si affida allo sciamano, quella che venera l’anziano al punto tale da dire che “quando muore un anziano è come se bruciasse una biblioteca”, quella che si dà appuntamento all’ombra di un eucalipto, quella che gioisce della pioggia, quella che non bada al fatto di camminare a piedi nudi. E allora ti sembra di sentire quei canti e vedere quei colori che ti eri spesso immaginato, magari un po’ sbiaditi dagli eventi.Se c’è una cosa che mi sembra di afferrare in questo ritratto è il rapporto naturale e non mediato che l’uomo intrattiene con la terra-madre. Eppure, paradossalmente, è questo uomo che soffre maggiormente la fame e la povertà nel mondo. Mi accorgo che non mi sono mai chiesta come mai.Me ne accorgo mentre il Professor Antonio Onorati, contadino, esperto internazionale di politica agricola e agroalimentare, Presidente della Ong Crocevia (e decine di altri titoli), traccia un quadro lucido e acuto dell’agricoltura odierna e delle politiche che le fanno da contorno. È tutto nero su bianco: i 2/3 degli affamati e il 75% dei poveri vivono nelle aree rurali del Pianeta. Ma quand’è che l’agricoltura è stata declassata da attività strettamente correlata alla sopravvivenza a settore subalterno, che subisce le scelte di altri domini della società? Da quando il modello di agricoltura incentivato dalle politiche nazionali e sovranazionali ha assorbito gli insegnamenti dell’economia? Il punto è che la vulnerabilità alimentare oggi non è un problema di mezzi, quanto di diritti. La produzione alimentare sarebbe perfettamente in grado di coprire i bisogni globali, se fosse equamente distribuita. La predizione malthusiana (ritmi di produzione agricola in difetto rispetto ai ritmi di crescita demografica) smentita dall’evidenza. Se ne deve dedurre che le spinte alla massimizzazione della produzione non rispondono ad un’esigenza fondamentale di garantire cibo in quantità per tutti, quanto ad imperativi di altro tipo. Me ne torno a casa con l’impressione di aver imparato qualcosa da Antonio; che “dietro le cause della diversità dei processi di sviluppo ci sono decisioni di uomini e donne”, ma soprattutto, ed è questo l’insegnamento che mi porterò dietro, che “queste decisioni possono essere cambiate”.

Valentina Francia

 

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