Non un giorno qualunque
25 febbraio 2008
Ore 10.00. Appuntamento a Roma, viale delle Terme di Caracalla n. 1, sede della FAO. Siamo ancora imbottigliati nel traffico di Roma, con cinque paia di occhi puntati su cartelli stradali e motorini che svicolano in tutte le direzioni.
Ore 10.15. Giriamo a vuoto intorno alle Terme. Italo chiama di nuovo. Manchiamo solo noi.
Ore 10.25. Finalmente ci siamo. Inizia il nostro tour. Gabriele mi preannuncia un’esperienza da non dimenticare. Io non ho ancora afferrato che siamo nella sede centrale della FAO, rispondo “anche girare per Roma in macchina è un’esperienza che non dimenticherò”. Mi preparo a catturare ogni cosa. L’immagine del tempio si fa pian piano strada.
L’edificio è un dedalo intricato di corridoi, non ho idea di quanto sia grande, né di quante persone ci camminino dentro. Fernanda fa da padrona di casa. Ci guida verso una sala riunioni. Fuori c’è scritto: Salle du Liban. La porta di fronte è invece intitolata al Messico. Inizio a capire che ci deve essere un legame tra il nome delle sale e gli Stati. Nemmeno il tempo di formulare la domanda che Fernanda ci dice che le sale che la FAO ospita (ad eccezione delle sale Plenaria, Rossa e Verde) sono state donate dagli Stati di cui portano il nome, i quali solitamente curano anche l’allestimento interno.
Prendiamo posto. Fernanda guadagna la seduta centrale, quella in cui siede il chairperson, ovvero la figura che coordina e dirige i lavori nel corso di una discussione. Noi visitatori, circa una ventina, ce ne stiamo seduti tutti intorno a ferro di cavallo. Mi attrae incredibilmente la strumentazione; ogni postazione ha un microfono, un blocco di fogli ordinati in un raccoglitore FAO e una sorta di mouse in miniatura, con un incavo nella parte inferiore, che solo alla fine capisco essere un’apparecchiatura acustica per la traduzione simultanea. Questa sala, che contiene al massimo una trentina di posti, ha quattro cabine di traduzione che si intravedono dietro i pannelli scuri delle pareti laterali. Ogni traduttore lavora per un massimo di 45 minuti consecutivi, per poi riprendere solo dopo una pausa di altri 45 minuti, quindi, se si prevedono tempi più lunghi, la seduta dovrà essere coperta da due traduttori. Adoro questi dettagli. Adoro poter mettere il naso in tutti gli ingranaggi della macchina, soprattutto quelli piccoli e velati.
Per esempio, vorrei tanto sapere come passa la giornata Fernanda. Lei tira fuori dalla tasca il suo blackberry, che ogni giorno le ricorda gli impegni quotidiani. Ha già dimenticato la prima incombenza di oggi: riservare il taxi per stasera, che la porterà allo studio televisivo in cui sarà ospite di un programma condotto da Claudio Lippi. La tabella di marcia poi prevede la nostra visita, un impegno alle 2 del pomeriggio, e, subito dopo, una video conferenza. Questa la giornata di Fernanda di oggi, 25 febbraio 2008. Immagino che ogni giorno porti con sé i più disparati appuntamenti. Curiosità sugli orari di lavoro: si entra in genere alle 8.30 (figli permettendo), non si sa quando se ne uscirà. Si può rimanere nell’edificio, senza richiedere un permesso speciale, fino alle 11 di sera, ma ci si possono passare anche nottate in bianco a portare a termine scadenze. La posta elettronica è lo strumento principe di corrispondenza; un funzionario del calibro di Fernanda riceve mediamente 300 e-mail al giorno. Ma naturalmente, ha una segretaria. E ci tiene molto a rimarcare il lavoro di chi opera dietro la grande facciata. Per esempio, dice, quando si accoglie una delegazione in una sala come quella in cui siamo noi, niente può essere lasciato al caso; diplomazia vuole che ogni particolare sia curato nel rispetto di quella delegazione. Magari nessuno si chiederà mai chi ha predisposto i segnaposto, ma c’è una mano dietro ogni fatto apparentemente scontato. Mi accorgo subito, appena lasciamo la Salle du Liban, che la forma qui ha il suo peso. Passo di fronte alla Sala Mexico e incrocio un carrello con teiere e cornetti fumanti. Riunione in corso.
La giornata ci riserva l’attrazione principale, la Sala Plenaria, quella in cui si riuniscono tutti i rappresentanti degli Stati membri, quella in cui si decretano le decisioni più importanti. Uno spazio enorme. Più di mille sedute, bandiere di ciascuno stato, diverse cabine di traduzione, un soffitto a dir poco affascinante. È un po’ come essere in un Parlamento mondiale, in cui Israele e Palestina sono seduti allo stesso tavolo. In realtà, chiarisce il nostro accompagnatore, le relazioni di ostilità tra Stati in conflitto impongono uno sforzo di accortezza nel far sì che i rispettivi delegati non siedano vicini. Diplomazia è anche questo.
Tutto si svolge come in qualsiasi altro centro decisionale: c’è un presidente che regola la discussione, ci sono tempi di intervento circoscritti (segnalati dalle indicazioni di un semaforo che sollecita alle conclusioni), si vota. Solo si parlano tantissime lingue. La maggior parte delle decisioni vengono prese a maggioranza semplice, per alcune questioni di particolare rilevanza si ricorre a maggioranze qualificate. Anche qui la tecnologia ha scalzato metodi di espressione del voto ormai obsoleti. Basta un click sul tasto corrispondente alla scelta di voto (favorevole, contrario, astenuto) e le maggioranze vengono elaborate elettronicamente. Profaniamo il posto di comando per curiosare e fare foto. Fa un certo effetto stare qui. Dà la misura del potere.
Lasciamo la Sala Plenaria, una fugace sosta nella Sala Verde; bella, ma ormai non c’è più gara. Le seduzioni della FAO non finiscono qui: dobbiamo ancora salire al piano attico, dove ci attende quella che Fernanda definisce “sicuramente la più bella terrazza di Roma”, una vista che non si coglie con uno sguardo solo. Si sentono parlare le lingue più diverse, nessuno ci fa caso, tranne noi.
Ho ancora un ultimo capriccio da appagare: sbirciare nell’ufficio di Fernanda. Lei ci porta con piacere; non è come lo immaginavo, lo pensavo grande ed austero, invece è piuttosto familiare. Un burqa, la sua collezione di zappe, qualche singolare ricordo di viaggio riassumono i suoi venti anni spesi lì. Rubo un’ultima immagine, il mondo visto da dentro un burqa. Tempo scaduto. Ora di salutarsi.
Valentina Fernanda ed il Burqua
Non c’è grande voglia di tornarsene a casa. Mi pare di leggere nei visi dei miei compagni quello che sento anch’io: una specie di nostalgia precoce, un rimpianto per non aver carpito abbastanza o un desiderio di carpire di più. Sappiamo tutti di aver varcato una soglia che difficilmente varcheremo ancora.
Valentina Francia