Archivio del 2009

Luanda, capitale dell’Angola

Lunedì 14 Settembre 2009

Luanda, capitale dell’Angola.                                                                    17 Marzo 2009

 

Una goccia di sudore mi scivola giù dal mento e lenta, come volersi adattare ai ritmi del posto, mi percorre il collo per poi cadere a terra senza far rumore, attratte dalle mie gambe attaccatice, rese tali dall’umiditá, alcune zanzare richiamate dal mio odore fanno banchetto. Rifletto sulle parole dettemi poc’anzi da pd. Gino, ripeto a me stessa di non aver fretta, di mettere da parte aspettative e ambizioni e di cominciare a vivere l’Africa per quella che è. Domani sarà una giornata difficile, un piccolo aereo mi poterà a Luena, sono stata  molto fortunata, in condizioni normali non esistono voli interni, ma tra qualche giorno ci sarà la visita di Benedetto XVI e tuto il paese è in fermento. Ho perso tutti i bagagli, dicono siano rimasti ad Addis Ababa, i padri della missione salesiana che mi hanno ospitata in questi giorni si sono impegnati a ritrovarmele e a spedirmele in qualche modo, ci conto poco, ma non ho molte alternative.

Oggi sono uscita dalla missione e accompagnata da un ragazzo del posto sono andata alla ricerca di qualche libro e con stupore ho potuto constatare che ancora esistono infiniti echi della colonizzazione portoghese; laddove era  proibito andare a scuola l’istruzione é diventato un bene di lusso ugualmente inaccessibile per la maggior parte della popolazione. Fino alla scorsa settimana Luanda deteneva il primato come città più cara del mondo per gli stranieri, non so cosa sia accaduto in questi ultimi sette giorni, ma stà di fatto che i prezzi continuano ad essere alle stelle. I diamanti  prima, il petrolio poi e tutti e due insieme ora hanno attirato in Angola in pochissimo tempo grandi uomini industiali e potenti da tutto il mondo, e d’improvviso i prezzi sono saliti alla stelle, e solo per dare qualche cifra, il costo di un appartamento in città altalena dai 5.000 ai 30.000 dollari mensili. Questa  situazione, come da bene ad immaginare, lascia alle persone comuni solo lo stato di miserabilità; eppure per le strade se si esula dai miloni di persone deturpate e mutilate dalla guerra, se si ignorano i bambini che lustrano le scarpe, se non si prendono in considerazione coloro i quali dormono ai margini delle strade, la città é tutta tesa verso una esasperata volontà di apparire proiettati verso una seconda Dubai.

Palazzoni di cemento di nuovissima costruzione, casinò, alberghi di fama mondiale fanno da landscape ad un traffico sempre più lento, percorrere circa duecento metri può richiedere anche più di un’ora, la città è congestionata da centinaia di pick up che si riversano a tutte le ore per le strade, strade costruite di notte dai figli del Sol Levante, (forse qui come in una colonia penale, disinteressati o forse semplicemente impediti dall’integrarsi nella società), alle quali bastano poche gocce di pioggia  perchè, poichè prive di sistema di scolo, si riempiano d’acqua, allora la macchina diventa una sorta di seconda casa, e rischi di rimanerci dentro per tutta la vita.

Tra i tanti quartieri poveri e più poveri, la costruzione della Ilha che sarà quartiere di punta della Luanda by night, sorgerà al posto della più realistica località di Lixeira, letteralmente discarica a cielo aperto: casette di lamiere e fango dominano il quartiere dall’alto delle loro montagne di spazzatuta.

 Rifiuti,  questo l’humus sul quale atecchiscono le loro fondazioni.

 Il governo ora ha iniziato un processo di sfollamento delle masse:

In che direzione si muoverà l’orda della maggior parte abitanti dell’Angola? Quanta miseria e povertà porteranno con loro? Mentre il capitalismo come effetto di uno tzunami si riversa sulle coste africane, riuscirà questo popolo a sfamarsi delle sole briciole che cadono dalle bocche piene e avide dei potenti che banchettano col futuro del mondo?

Osservo le navi cargo al largo del porto di Luanda, in attesa di entrare da forse quattro, cinque mesi e mi domando fin dove può spingersi l’animo umano, fin quando sarà possibile giocare così col destino delle vite altrui.

 

Pubblicato in Casa delle Api |

la lunga fila dei respinti.

Venerdì 11 Settembre 2009

Questi i risultati dei test di ammissione alle classi terza e quarta della scuola Lasalle: 99 domande e 3 ammessi, 115 richieste, 5 selezionati.

Zwavi: un piccolo cartello comunica che il giorno dopo verranno aperte le iscrizione alla prima classe dell’asilo. L’orario segnato è alle 9, ma alle 9 e 15 si chiudono i cancelli.

Forse verrebbe da pensare che le scuole dei missionari, fratelli cristiani a Meki e suore salesiane a Zwai, abbiano aule piccole, ma non è così: la scuola di Meki ha in totale, divisi nelle 12 classi del sistema etiopico, 1580 studenti, la classe d’asilo di Zwai ha 60-70 bambini.

Alle 9 di sera, davanti all’asilo c’era chi prendeva posto per essere il primo della fila dopo una notte passata in coda; 500 le richieste quando hanno chiuso i cancelli.

Studiare in una scuola come la Lasalle di Meki significa che, dopo duri sacrifici (si studia dalle 8 alle 5 del pomeriggio, con una pausa pranzo di un’ora e mezza, dove chi non ha i mezzi non mangia), si sarà ammessi all’università.

Qui in Etiopia le classi sono 12, c’è un esame tra la classe 10a e l’11a, due anni di preparazione per l’università (11 e 12), poi un esame di ammissione. Chi lo passa va all’università e la possibilità di scelta della facoltà dipende dal voto ottenuto: migliore il voto, più ampia la scelta.

135 - 133, 130 - 129: questi i risultati degli esami di ammissione alla classe 11a e all’università: praticamente la totalità degli studenti.

Qui l’università significa lavoro, significa sicurezza e realizzazione. E’ gratuita, o meglio: si paga a rate quando si lavorerà, terminati gli studi.

Chi non entra al Lasalle o all’asilo delle salesiane di Zwai andrà in una scuola governativa, dove la certezza di arrivare all’università non c’è.

Ma allora, quei tre ammessi alla terza, quei 5 ammessi alla quarta, i bambini che entrano nell’asilo?

Nel caso dell’asilo le suore sanno che i bambini che entrano nelle loro scuole verranno seguiti fino all’università, e vogliono scegliere quelli che più ne hanno bisogno. Quei 500 che hanno richiesto l’ammissione per i propri figli sono stati sottoposti ad un’intervista, volta a conoscerne la vita economica e sociale: si darà precedenza ai più bisognosi.

Nel caso del Lasalle, invece, sono quei ragazzi cui la scuola può permettersi di pagare interamente la retta; una manciata rispetto ai 1580. Quel 50% circa di studenti interamente paganti copre le spese anche per quelli che non possono. I bambini sostenuti a distanza sono circa una ventina, e il direttore, Belayneh, bussa di porta in porta per trovare dei fondi per avere più studenti, perché qualcuno non adotti il singolo ragazzo, ma la scuola: la quota mensile andrebbe a coprire le spese dei salari, dei materiali…

Ragionando con un occhio al presente, uno al futuro e i piedi piantati nella certezza della provvidenza, stanno costruendo un ostello per 60 ragazze.

Se prima c’era diffidenza nei confronti delle scuole, che toglievano forza lavoro tanto che Suor Elisa, salesiana, ci raccontava di come all’inizio i bambini dopo la scuola facevano dei lavoretti per i quali ricevevano dei soldi. La loro presenza a scuola era motivata dal denaro che portavano in casa. Perché i lavoretti? perché denaro in cambio di nulla non è educativo. Ma se prima era così ora lunghe file di persone chiedono una possibilità per i propri figli.

La speranza è che le generazioni che stanno nascendo, andando a sostituire quella al governo, lavoreranno sulla propria esperienza.

Emanuele Ferrarini:

 

Pubblicato in Valsangro, Provincia di Macerata |

la lunga fila dei respinti.

Venerdì 11 Settembre 2009

Questi i risultati dei test di ammissione alle classi terza e quarta della scuola Lasalle: 99 domande e 3 ammessi, 115 richieste, 5 selezionati.

Zwavi: un piccolo cartello comunica che il giorno dopo verranno aperte le iscrizione alla prima classe dell’asilo. L’orario segnato è alle 9, ma alle 9 e 15 si chiudono i cancelli.

Forse verrebbe da pensare che le scuole dei missionari, fratelli cristiani a Meki e suore salesiane a Zwai, abbiano aule piccole, ma non è così: la scuola di Meki ha in totale, divisi nelle 12 classi del sistema etiopico, 1580 studenti, la classe d’asilo di Zwai ha 60-70 bambini.

Alle 9 di sera, davanti all’asilo c’era chi prendeva posto per essere il primo della fila dopo una notte passata in coda; 500 le richieste quando hanno chiuso i cancelli.

Studiare in una scuola come la Lasalle di Meki significa che, dopo duri sacrifici (si studia dalle 8 alle 5 del pomeriggio, con una pausa pranzo di un’ora e mezza, dove chi non ha i mezzi non mangia), si sarà ammessi all’università.

Qui in Etiopia le classi sono 12, c’è un esame tra la classe 10a e l’11a, due anni di preparazione per l’università (11 e 12), poi un esame di ammissione. Chi lo passa va all’università e la possibilità di scelta della facoltà dipende dal voto ottenuto: migliore il voto, più ampia la scelta.

135 - 133, 130 - 129: questi i risultati degli esami di ammissione alla classe 11a e all’università: praticamente la totalità degli studenti.

Qui l’università significa lavoro, significa sicurezza e realizzazione. E’ gratuita, o meglio: si paga a rate quando si lavorerà, terminati gli studi.

Chi non entra al Lasalle o all’asilo delle salesiane di Zwai andrà in una scuola governativa, dove la certezza di arrivare all’università non c’è.

Ma allora, quei tre ammessi alla terza, quei 5 ammessi alla quarta, i bambini che entrano nell’asilo?

Nel caso dell’asilo le suore sanno che i bambini che entrano nelle loro scuole verranno seguiti fino all’università, e vogliono scegliere quelli che più ne hanno bisogno. Quei 500 che hanno richiesto l’ammissione per i propri figli sono stati sottoposti ad un’intervista, volta a conoscerne la vita economica e sociale: si darà precedenza ai più bisognosi.

Nel caso del Lasalle, invece, sono quei ragazzi cui la scuola può permettersi di pagare interamente la retta; una manciata rispetto ai 1580. Quel 50% circa di studenti interamente paganti copre le spese anche per quelli che non possono. I bambini sostenuti a distanza sono circa una ventina, e il direttore, Belayneh, bussa di porta in porta per trovare dei fondi per avere più studenti, perché qualcuno non adotti il singolo ragazzo, ma la scuola: la quota mensile andrebbe a coprire le spese dei salari, dei materiali…

Ragionando con un occhio al presente, uno al futuro e i piedi piantati nella certezza della provvidenza, stanno costruendo un ostello per 60 ragazze.

Se prima c’era diffidenza nei confronti delle scuole, che toglievano forza lavoro tanto che Suor Elisa, salesiana, ci raccontava di come all’inizio i bambini dopo la scuola facevano dei lavoretti per i quali ricevevano dei soldi. La loro presenza a scuola era motivata dal denaro che portavano in casa. Perché i lavoretti? perché denaro in cambio di nulla non è educativo. Ma se prima era così ora lunghe file di persone chiedono una possibilità per i propri figli.

La speranza è che le generazioni che stanno nascendo, andando a sostituire quella al governo, lavoreranno sulla propria esperienza.

Emanuele Ferrarini:

 

Pubblicato in Valsangro, Provincia di Macerata |

Meki 3 settembre 2009

Venerdì 11 Settembre 2009

Sveglia alle 7:00…L’aria è un po’ tesa a causa dei vari problemi che abbiamo riscontrato in questi giorni.

Verso le 9:00, accompagnati da Padre Giovanni Monti, abbiamo incontrato il direttore del settore educativo del vicariato di cui siamo "ospiti". Questa persona, nonostante varie ed allettanti opportunità di lavoro ricevute dopo aver studiato in America, è tornato a Meki, nel suo paese, un po’ per sfida, per impegnarsi a dare un’opportunità agli studenti più volenterosi di riuscire a realizzarsi così come lui stesso ha fatto.

In base alle statistiche, ci ha spiegato che su 130 iscritti 129 alunni riescono a portare a termine la propria carriera scolastica con successo.

Quindi ci ha fatto visitare le varie strutture adibite a laboratori di chimica, fisica, biologia, disegno tecnico, informatica, biblioteca…

Tutte aule frequentate da circa 100 studenti che si dividono in gruppi di 3 o 4 persone per attrezzatura per usufruire dei servizi messi a disposizione della struttura.

Poi siamo andati a visitare l’orfanotrofio finanziato da un progetto spagnolo. Qui abbiamo trovato un clima sereno, un ambiente ordinato, pulito, sano e molto organizzato. C’erano anche una decina di bimbi molto molto piccoli con cui abbiamo potuto giocare.

Nel pomeriggio abbiamo visitato gli uffici amministrativi della diocesi, finanziati dalla Caritas austriaca, ed anche qui abbiamo constatato un’ottima organizzazione.

Poi ci siamo spostati un po’ anche nelle strutture interne del vicariato: all’asilo e al seminario. Nel visitarli abbiamo deciso di dare una "mano di pittura" alle pareti di due aule dell’asilo e di riparare alcuni giochi rotti nel giardino con le offerte donate dagli impiegati delle poste di Castiglion Messer Marino (CH).

In seguito, guidati dal suono di alcuni canti, ci siamo recati in chiesa, dove due suore ed alcuni bambini stavano facendo le prove di canto e ballo per la messa di domenica, a cui spero vivamente di poter partecipare.

Luisa D’Agostino

 

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A piccoli passi

Venerdì 11 Settembre 2009

Quando vedi che c’è così poca giustizia sociale la domanda che ti poni subito è: "cosa fare?"

E’ forse a questo punto che inizia la confusione. I problemi in Etiopia sono molti. L’Africa, poi, è immensa.

Il rischio che si corre è quello di lasciarsi andare al senso di impotenza lasciando svanire il fuoco che brucia dentro: quel fuoco vorrebbe che ogni persona sulla terra vedesse riconosciuti propri diritti umani.

Per fortuna Paolo Caneva, missionario laico da 5 anni in Etiopia, ci indica un sentiero che ci restituisce la nostra possibilità di azione: la giustizia sociale si costruisce avendo coscienza di chi si è, di dove e come si vive. Avendo cura di quel bene immenso che è l’acqua, consumando meno e più attentamente, liberandoci dalle dipendenze quotidiane che il "padrone-televisione" ci impone, vivendo più semplicemente  e lentamente. In questi "piccoli" passi c’è tutta la potenza necessaria per camminare accanto a questi popoli, meravigliosi nonostante la difficoltà in cui vivono.

E ciò che è davvero importante è che possiamo farlo tutti, nel posto in cui viviamo, ogni giorno.

Fabiola Abbati

 

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Trieste, 30 agosto ’09

Martedì 1 Settembre 2009

Non è passata una settimana dal ritorno dall’Angola e sono ancora alla disperata ricerca di riuscire a mettere a posto l’enormità di foto che ho scattato.

Un po’ tutti aspettano queste foto, Lumbelumbe, i ragazzi di Roma,i ragazzi di Mogliano, i medici del Burlo Garofano, ospedale pediatrico triestino, che operano a Luanda ed anche i vari Padri delle Missioni Salesiane che abbiamo visitato ed anch’io che spero,in tutta franchezza,di riuscire a farne qualcosa.

Questa mattina complice la splendida giornata, sono andato a fare un giro sul lungomare della mia città e mentre mangiavo un gelato, seduto su una bitta, dando le spalle al lento e tranquillo traffico di una domenica di fine agosto, guardando il mare, mi sono apparse come in un flash-back tutte le immagini e le sensazioni di queste tre settimane passate in Angola.

Il mare che unisce,il mare che divide.

Questo liquido riesce allo stesso tempo bagnare le coste dell’Angola e quelle di Trieste ed in egual modo rappresenta una barriera liquida che divide questi due paesi, questi due continenti da chilometri di distesa umida.

Allora,pur essendo tanto veloce a fare fotografie quanto pigro nello scrivere, ho deciso di mettermi sul computer per imprimere i ricordi di questa ”vacanza” prima che svaniscano come il gelato che sto mangiando.

Non saprei da dove iniziare ma credo che i “ragazzi”, scusate se uso questo appellativo, siano un ottimo punto di partenza.

Non vi ho frequentato sempre, anche perché ho fatto il Jolly nelle varie missioni ma nel poco che Vi ho visto, ho condiviso con Voi degli attimi intensi, sono stato presente ai Vostri cambiamenti, alla presa di coscienza di un luogo così difficile come può essere l’Angola, alle Vostre crisi ed anche ai Vostri momenti di rabbia perché pensavate che tutto quello che avete fatto era poco o niente nell’enormità delle cose da fare.

Ma penso che se un domani qualsiasi persona che si presenterà ad N’dalatando verrà accolta con un”VINCE AMICU MIO”da parte dei bambini sarà una enorme vittoria.

Il fatto che più di qualche bambino abbia “preso” una matita colorata e quando su un pezzo di carta sporco, stracciato cercherà di fare un fiore o un animale penserà a Voi, sarà una vittoria.

I cerotti che avete messo anche a coloro che Vi mostravano dei graffi da mesi guariti sono una vittoria perché avete dato a quei bambini un’attenzione che non avevano mai avuto.

Il fatto di venire accolti come dei fratelli e assaliti a tal forza che spesso le magliette ne portano l’indelebile ricordo è sempre una vittoria.

Potrei continuare con esempi di cose che avete fatto, che hanno cambiato Voi e le persone che Vi circondavano, a me fotografo e giornalista, un po’più datato di Voi e più smaliziato dai viaggi nelle zone di crisi del mondo, pur avendo un limite diverso, avete dato una grande lezione di vita e di freschezza morale, perché ho conosciuto delle persone che, sono sicuro, sapranno migliorare questo mondo, avranno una esperienza che se condivisa con i Vostri coetanei, farà capire di quante cose inutili ci circondiamo, dimenticando la cosa fondamentale, la bellezza della vita stessa.

Forse non sarete testimoni di questi avvenimenti, lo saranno i Vostri figli o i Vostri nipoti ma sarete stati Voi a dare l’impulso iniziale e questo Vi rende diversi e nel mio cuore avrete sempre un posto speciale, per me, abituato a vivere i viaggi come un’esperienza personale e solitaria.

Essendo un laico e, devo essere sincero, frequentando poco l’ambiente Cattolico e dei Salesiani, è stata una meravigliosa sorpresa trovare una organizzazione così ben strutturata e radicata nel territorio, di questo devo ringraziare un poco tutti i Padri missionari che ho conosciuto ma in particolare modo, Padre Filiberto con il quale ho condiviso il lungo e terribile viaggio da Luanda e Luena e ritorno,oltre 3000 km di strada, pista, sterrati, burraco e di tutto quello che si può trovare lungo le strade di un paese africano.

Con lui in un misto di portoghese, spagnolo ed italiano ho condiviso un viaggio di oltre 30 ore e con lui mi sono aperto come non ho mai fatto nella mia vita, nemmeno i miei amici più intimi hanno avuto la possibilità di condividere questi miei pensieri, muito obrigado a Vossé, Padre.

Un ricordo particolare và sicuramente a padre Marcelo che con la sua bonaria energia atomica dirige il centro don Bosco della Lixeria e tutti i piccoli centri salesiani annessi a questa realtà, di te Padre ricorderò come con un cenno delle tue sopraciglia incolte, una linea unica che taglia a metà il viso, centinaia di bambini zittiscono e ti stanno ad ascoltare.

Ricorderò padre Roberto, canuto, ma come un baobab dritto e maestoso affronta i monsoni, tu affronti nei giorni le difficoltà di riportare alla realtà i bambini di strada, scegliendo di andarli a cercare nel loro ambiente tra rovine e ferri arrugginiti durante la notte nel momento più difficile e più pericoloso.

Ricorderò padre Cassoma, grande appassionato di basket, unico angolano tra tutti questi padri che ho conosciuto con il grande sogno di riuscire a cambiare la visione del futuro del suo popolo.

Ricorderò tutti i bambini che ho fotografato, porto la loro testimonianza nel mio computer, in particolar modo quelli di Boa Vista, per arrivarci bisogna scendere per un centinaio di metri nelle immondizie come fosse un sentiero di montagna e dove ho visto più di qualcuno di noi arricciare il naso all’odore terribile che queste immondizie sprigionano,Voi mi avete ricordato che bisogna gioire di quello che si ha al momento, un pallone, un corda anche solo un pezzo di legno che possa servire per giocare.

Un piccolo ma meraviglioso ricordo ai medici dell’ospedale Divina Providencia, tanti sono degli specializzandi di un ospedale infantile della mia città che con affetto e dedizione cercano di curare bambini affetti da cose terribili come hiv, tubercolosi, malnutrizione ed anche malattie che solo in africa possono esistere come lo kwasharkor, con loro ho passato dei momenti speciali.

Un bellissimo ricordo va ad una persona con le quale ho condiviso solo una giornata, Anna,una architetto che segue il progetto della casa del miele, lei come una guerriera ogni giorno si faceva 2-3 ore di pista africana per raggiungere il sito dove la casa del miele sorgerà e dove ogni giorno doveva combattere con i problemi pratici africani e solo un incidente stradale è riuscito a fermarla.

Adesso rimane il ricordo dell’Angola o forse dovrei dire dell’Africa che ogni volta riesce a colpirmi dritto nel cuore con le sue contraddizioni, un continente dove non esistono vie di mezzo, dove amore, odio, violenza, pace, ricchezza e povertà si mescolano in una maniera che solo in Africa ho potuto trovare ed ogni volta riesce a far scaturire dentro di me le medesime contraddizioni, l’odio e l’amore per questa terra mi arrivano violente dal cuore e dal cervello vedendo e fotografando quello che ho davanti.

Mi dispiace che questo era il Loro inverno ma l’alba a Luena alla partenza con padre Filiberto, con 6 gradi di temperatura ed un cielo terso come poche volte si può vedere nelle nostre industrializzate ed inquinate città sarà un ricordo indelebile.

Anche la Lixeria con la sua puzza e sporcizia sarà un ricordo perché ogni luogo ha un suo odore e quello sarà per me l‘odore di Luanda che porterò nel cuore

L’ultimo ricordo va ad una collega, Paola, che tanti mesi fa, per caso, mi ha fatto conoscere questa organizzazione Lumbelumbe che mi ha permesso di compiere questo viaggio e di conoscere questa nuova realtà,quindi……

Grazie Paola e grazie Italo per l’esperienza che ho potuto fare tramite il Vostro aiuto.

Claudio Tommasini

 

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Ragazze e ragazzi di Yephorena

Martedì 1 Settembre 2009

 

 

Caldo, pioggia e ancora caldo durante la stupenda passeggiata che dai nostri alloggi ci ha portati a conoscere i ragazzi del villaggio di Yephorena. Il paesaggio cambia continuamente mentre si sale sulle colline. La terra rossa impregnata d’acqua, il fiume che scorre tumultuoso ed infine un inaspettato bosco. Al nostro passaggio i bambini escono dalle loro capanne e ci salutano regalandoci luminosi sorrisi. Durante il percorso incontriamo gruppi di donne in marcia una dietro l’altra con i testa carichi pesantissimi e ci stupiamo di come non sembrino per niente affaticate, mentre noi sudiamo affannati sotto il misero peso dei nostri zainetti da turisti. Appena arrivati a destinazione udiamo subito il suono dei djambe’ e le voci di un coro. Entriamo nel cancello di lamiera e ci avviamo verso un edificio di terra composto da una sola stanza arredata di poche panche. Un gruppo di ragazze e ragazzi ci accoglie con un canto, anche noi cantiamo ma il risultato è decisamente ridicolo in confronto alla loro performance. Prendiamo posto di fronte e tutti visibilmente imbarazzati cominciamo a presentarci uno alla volta. Le ragazze sono più timide e ci regalano solo brevi frasi sussurrate, nascondendosi, poi, il viso tra le mani o dietro la schiena della loro vicina. Grazie alla presenza di Paolo e di sua moglie Shitaye, che traduce tutto quello che viene detto, l’atmosfera si ammorbidisce ed iniziamo a porci delle domande ed a fare delle riflessioni. Dal canto nostro cerchiamo di spiegare i motivi che ci hanno spinti ad intraprendere questa esperienza, descrivendo la vita alienante che si svolge in occidente dove, pur avendo a disposizione ogni bene di consumo, la gente è profondamente infelice e frustrata, al contrario degli etiopi che, sebbene vivano una vita stretta nella morsa della povertà, sembrano sereni e contenti di quel poco che posseggono. A tal proposito uno dei ragazzi del villaggio ci dice che la felicità non può far parte della vita terrena ma solo di quella eterna. Questa è la loro speranza. Quello che emerge dallo scambio di domande ed opinioni con questo gruppo di giovani è la consapevolezza che l’istruzione è l’unica via di riscatto. Solo frequentando la scuola e l’università questi ragazzi avranno la possibilità di migliorare la loro condizione e quella della società in cui vivono. L’istruzione però da queste parti è un lusso concesso a pochi. Fin da piccoli i bambini devono aiutare i loro genitori nel lavoro dei campi e a pascolare le greggi. In questo modo resta ben poco tempo da dedicare allo studio, inoltre la mancanza di corrente elettrica rende impossibile studiare durante le ore serali, le uniche che potrebbero essere dedicate all’apprendimento. Alla domanda "come trascorrete il vostro tempo libero?" la risposta unanime è "studiando". E pensare che noi studenti italiani viviamo gli anni di scuola come una costrizione, un peso, un’attività che ci toglie il tempo del divertimento. Un altro aspetto interessante che emerge da questo confronto è che oggi, al contrario di quanto si possa immagine, un ragazzi e una ragazza possono sposarsi scegliendo liberamente il proprio compagno. il matrimonio non è più soltanto un contratto tra due famiglie che per ragioni prettamente economiche decidono di stabilire un legame di parentela, ora due persone che si vogliono posso unirsi. Il consenso delle famiglie è sempre necessario, ma viene concesso senza particolari problemi. Quando poi chiediamo se c’è parità tra uomo e donna, la risposta è imbarazzante: mentre i ragazzi affermano di si, le ragazze abbassano gli occhi dietro un velo di silenzio. sarà vero? I meccanismi sociali di questa regione dell’Etiopia sono affascinanti, ma talvolta contraddittori e difficili da comprendere per chi come noi viene ad osservarli con occhi occidentali. Tuttavia queste poche ore trascorse insieme ai nostri coetanei locali ci hanno insegnato più di mille libri, ma il bello dell’Africa è che quando si crede di aver capito come funziona questa parte di mondo, una semplice frase o un gesto casuale fanno crollare le nostre certezze e allora rimetti tutto in discussione e ricominci da capo.

Marialaura Di Donna

 

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Un chicco di caffè per ogni goccia di pioggia…

Lunedì 31 Agosto 2009

 

Sono mani sapienti quelle che versano il caffè. Ripetono gesti antichi quando versano la polvere di caffè e il sale nella caffettiera di terracotta che sta cuocendo sul fuoco. Mentre la polvere nera scende nella bocca del vaso la pioggia, fuori, continua a cadere. Stavamo tornando dalla casa di Sisaye, l’insegnante che ci aveva invitato a prendere il caffè nella sua abitazione, un tukul, o ‘kogio-bet’ (casa circolare), distante circa mezz’ora dalla Salam Bet, la casa che ci ospita, quando la pioggia ci ha sorpreso cadendo così tanto da costringerci a chiedere riparo in un’altra abitazione. Il padrone di casa è un uomo che ha, a detta di Paolo, tra i 20 e 25 anni; inutile chiederlo a lui, perché qui non tengono conto del tempo che scorre. Anche i suoi gesti e i suoi occhi riflettono tempi antichi, una maturità che mi aveva fatto credere che fosse molto più vecchio. Ci fa entrare, aprendo una porta fatta coi pali che copre l’entrata solo fino a metà altezza, per permettere alla luce di entrare. Poca,ma sufficiente per distinguere, dalla nostra panca a ridosso della parete, che questa abitazione è, o meglio è stata, più curata di quella di Sisay: se quella aveva la parete di divisione del tokul, che divide in due l’area (dove dormono, mangiano e cucinano e la stalla), realizzata con dei teli di stoffa, questa ha una parete solida; se quella aveva la parete lasciata color terra, questa ha la parete lasciata color terra per un pezzo e poi pitturata di bianco. Ma le stuoie sono più vecchie, il tetto ha dei buchi e tutta l’abitazione trasuda un’eleganza passata. Non vi sono parole, solo il pronto riattizzare il fuoco, il soffiare sulle braci, il preparare il caffè, lasciato poi fare alla moglie, mentre lui va a prendere la legna sotto alla pioggia: si vede il piacere che c’è nell’avere degli ospiti e qualcosa da offrire. Dietro alle gambe della moglie si nasconde una bambina, impaurita dal nostro silenzio e dal nostro biancore. Il caffè è pronto, ci viene servito su un tavolino che l’uomo è uscito a prendere fuori, sotto la pioggia. La donna entra nell’altra parte della casa e ne esce con dei piselli tostati, per poi ritirarsi in un angolo buio: deve allattare. Fuori spiove. Mentre beviamo - a piccoli sorsi! - il caffè salato, masticando quegli ottimi piselli, sono colpito dalla lentezza dei gesti, dall’umiltà di offrire ciò che si ha e dalla dignità che c’è sui loro volti e sulle storie che quei volti hanno da raccontare. Storie che da noi non ho mai letto. Storie che qui, per una goccia di pioggia, sono offerte insieme al caffè.

Emanuele Ferrarini

Pubblicato in Valsangro, Provincia di Macerata |

Riflessione sul concetto di solidarietà

Sabato 29 Agosto 2009

 

Per il nostro primo giorno di permanenza a Emdibir, Paolo ha organizzato presso la Salam Bet dove siamo ospitati un incontro di benvenuto con il vescovo della diocesi.

Monsignore Musie Ghebreghiorghis si presenta subito in modo affabile, come forse non mi sarei aspettata, tanto che il clima formale che si era creato ad inizio incontro ben presto lascia il posto ad una chiacchierata “tra amici”, accompagnata da orzo tostato ed ottimo caffè.

Il nostro interlocutore è disponibile a parlare (in un italiano impeccabile!) di qualsiasi tematica ci interessi, spaziando tra gli argomenti  più disparati quali la religione, la politica, le tradizioni locali, l’agricoltura e problemi quali l’hiv e la povertà del paese.

Particolarmente interessante è stata l’interpretazione del volontariato come forma di solidarietà: a suo avviso infatti anche un’esperienza di breve durata come la nostra ha di certo un grandissimo valore per la gente del posto.

Sono rimasta molto colpita da questa riflessione dal momento che più volte mi sono chiesta quale sia effettivamente il vantaggio per le persone del posto di avere per qualche giorno qualcuno che arriva (magari porta anche un po’ di scompiglio!) e poi se ne va…la ricchezza che il volontario porta a casa da un esperienza come quella che stiamo vivendo qui in Etiopia è indiscussa…ma chi rimane?

Ebbene, secondo Musie qualsiasi esperienza di volontariato può essere intesa come una forma di solidarietà che trasmette cultura, educazione e progresso, anche se concentrati in poco tempo. Ciò che i volontari portano alle persone che incontrano è un modo migliore di vivere, un punto di vista nuovo e alterativo.

Non avevo mai pensato al mio ruolo di volontaria in questi termini e se da un lato questo mi fa percepire un po’ di più la responsabilità legata alla nostra presenza qui, dall’altro mi sento quasi sollevata nell’aver trovato una risposta così sincera e naturale a quello che a me sembrava un interrogativo quasi sconveniente.

Insomma, sono rimasta piacevolmente sorpresa dall’incontro…. e siamo solo al primo giorno..chissà quante altre persone interessanti incontreremo nel corso della nostra permanenza qui….bhe’, si sa, il tempo in Africa ha tutto un ritmo tutto suo , quindi aspetto, senza fretta…..

Cristiana Bruè


 

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Regalare la pace

Giovedì 27 Agosto 2009

 

La gente con la sua spontaneità  si confonde con la natura.

Il paesaggio è bellissimo come lo è lo stile di vita di queste persone; sono veramente in sintonia con la natura, qui si vede come i quattro elementi fuoco, terra, acqua e aria siano indispensabili alla sopravvivenza. Pur se noi li definiamo poveri credo siano molto ricchi di ingegno e tradizioni; mi affascina molto la loro vita, forse perché sono consapevole che non riuscirei mai a fare una vita così, lontana dalle mie comodità materiali.

Questa volta vedo gli adulti molto ospitali, calorosi e gioiosi come i bambini. Ci accolgono come la terra accoglie gli uomini.

La pioggia accompagna inesorabile ogni mio passo, inizialmente lo faceva in modo precario ma piano piano lo ha reso più forte.

Qui è una pace per la mia anima, vorrei tanto regalare questa mia emozione al mondo intero.

Sara Francia

 

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