Archivio del 2008

Una Africa che ci fa riflettere

Venerdì 24 Ottobre 2008

la nostra esperienza in Africa è stata intensa e costruttiva per tutti noi, una ricchezza e un punto di partenza per molti…tuttavia è capitato anche di confrontarci con realtà che non ci aspettavamo e che ci hanno sorpreso.
Mi riferisco in particolare alle volte in cui è stata percepita una dissonanza fra le vostre, nostre,  aspettative e la vita reale dei luoghi che ci hanno ospitato, con le loro dinamiche, a volte difficili da comprendere.
Siamo partiti per l’Africa con il desiderio di comprendere meglio i  modi per dare un contributo, qualunque esso fosse, per sostenere il processo di salvaguardia e insieme di sviluppo di questa terra, con tanti sogni, idee, progetti. Certamente è auspicabile che l’intento di tutti coloro che scelgono di impegnarsi a sostegno di questa terra d’Africa e dei P.V.S. in generale, sia quello di:
- diventare “portatori sani” della solidarietà e contagiare quante più persone possibili con generosità, gratuità e sincerità di cuore;
- concorrere, ognuno con le proprie forze e anche soprattutto nel proprio quotidiano, a promuovere la crescita e l’autosufficienza dei popoli che la abitano.
Ma a volte, di fronte ad una realtà difficile come quella africana, dove spesso le regole e le consuetudini del mondo occidentale, in cui siamo cresciuti e a cui siamo abituati, sembrano capovolte o semplicemente non esistono, si è costretti a rinegoziare le proprie aspettative, rivedere programmi, obiettivi e metodi.  Si è costretti a fare scelte che possono incontrare disapprovazione e biasimo, che non vengono capite, soprattutto da coloro che non conoscono a fondo la realtà in cui si è immersi.
Per chi non avesse compreso mi riferisco in particolare all’episodio del “bambino picchiato” che, anche se ampiamente discusso in occasione dell’incontro di sabato 18 ottobre, ha destato amarezza in alcuni di voi ed ha aperto una finestra su una realtà che non ci aspettavamo. Inutile negare che l’episodio ha scosso qualcuno e credo che umanamente chiunque ne sarebbe rimasto colpito. Tuttavia invito a non dimenticare, non sarebbe onesto, ma a cercare di comprendere, a guardare a quel gesto o a quei comportamenti come inseriti all’interno di un quadro i cui contorni sono più cupi di quelli che conosciamo, contorni che pure ci sfuggono. 
Padre Daniel sa, perché la vive, quanto è dura la vita in Africa in particolare per i giovani. Una vita ingiusta dove i ragazzi crescono vittime della violenza,  schiacciati e plasmati da un giogo che non hanno scelto: vittime quando subiscono la violenza e vittime quando la esercitano, perché hanno fatto proprie delle modalità di relazione distruttive. Questo certo non giustifica il ricorso alla violenza in chiave educativa, giacché tutti sappiamo che la violenza altro non fa se non alimentare se stessa, ma può contribuire a spiegare perché in situazioni di particolare stress o di pericolo, per l’incolumità propria o degli altri, di fronte all’impossibilità di gestire un problema o una crisi – che pure capitano di frequente in contesti così difficili - facendo appello alla razionalità, al buon senso, alla disponibilità all’ascolto dell’interlocutore, si possa esser costretti ad adottare un atteggiamento di particolare fermezza, duro fino quasi al limite del rispetto verso l’altro. 
Non chiedo di giustificare ne sarebbe corretto farlo, ma invito tutti a cercare di comprendere le ragioni che sottostanno a certe scelte.
Piuttosto credo sarebbe utile fornire a coloro che vivono questa difficile realtà, sacerdoti o aspiranti tali compresi, nei paesi piagati dalla miseria e dalla guerra, di un supporto ulteriore nelle loro attività, di una rete, magari costituita da persone che possono offrire competenze diverse, che possa più facilmente gestire, contenere e risolvere situazioni di crisi, o che possa intercettare bisogni, esigenze, sofferenze che spesso sfuggono a coloro che sono impegnati su molti, forse troppi fronti, per soddisfare questi bisogni, sciogliere per quanto possibile queste sofferenze, canalizzare energie e potenzialità verso percorsi costruttivi.
Io credo che se tutti, come ritengo sia, abbiamo a cuore gli stessi obiettivi, e se ci disponiamo in un atteggiamento di apertura e di confronto (anche solo cominciando col pensare per qualche minuto, ogni giorno, con rispetto e gratitudine a ciò che abbiamo visto) - pronti a mettere in discussione le nostre certezze o i nostri giudizi – potremo dare il nostro piccolo ma importante contributo per aiutare a ridisegnare contesti e situazioni e per sperare di lasciare un mondo migliore.
Associazione LumbeLumbe

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Un inferno a portata d’Europa

Martedì 9 Settembre 2008

 

Lunedì 8 settembre, Belchika Kalubi, segretario dell’ UDPS ( Union pour la Démocracie et le Progrés Social), nella sua accogliente e maestosa casa di Kinshasa ci illustra la situazione politica e sociale del Congo. Il partito in questione, uno dei movimenti politici più importanti che da anni si batte contro la politica dell’attuale presidente Kabila, vanta una forte e longeva tradizione storica oltre che il boicottaggio alle scorse elezioni politiche, fortemente volute e corposamente finanziate dall’ Unione Europea che illo tempore si fece portabandiera di un possibile quanto auspicabile risanamento delle sorti di un paese ormai alla deriva. “ E’ una situazione politica che si colloca al rovescio rispetto al potenziale di una paese che non ha nulla da invidiare a nessuno in quanto a risorse, ricchezza, territorio, abitanti e clima- dichiara Kalubi- pensate che in un tempo non molto lontano, vale a dire poco più di 30 anni fa, aveva lo stesso livello di sviluppo del Canada, della Corea del Sud e del Sud Africa. Ora invece siamo al centro dell’inferno e la responsabilità di questa situazione è della direzione politica attuale nonché di quelle che l’hanno preceduta”. Poi aggiunge: “ L’autorità dello Stato è inesistente. Ogni individuo si difende da solo attraverso l’arruolamento a milizie non riconosciute e il ricorso a  regolamenti di conti eseguiti in maniera arbitraria e individuale. La situazione è nera poiché nel nostro paese regna una insanabile rottura accompagnata da una  forte mancanza di fiducia tra la popolazione e chi governa”.

Due ore di conversazione sono scivolate via tra dichiarazioni ufficiali, chiacchiere amichevoli e bicchieri di birra. Da scenario una sconosciuta “maison” della capitale nella quale nessuno di noi aveva mai creduto di poter mettere piede. Davanti a noi Belchika Kalubi, un  politico, un cittadino, un uomo invaso da un’umanità tangibile, composto nella seduta ma con uno sguardo che spazia in un solo istante da un orizzonte all’altro, uno sguardo che non ha limiti invalicabili ma che al contrario invoca una passione per il suo lavoro, per la sua terra e per il suo popolo davvero straordinarie.

Tutto questo ci permette ben presto di rilassarci e di scendere in quei particolari dei quali avremmo voluto parlare a patto che la situazione ce lo permettesse. Gli poniamo questioni molto dirette e anche un po’ scomode. La precisione  nelle risposte è stata sorprendente. Ammette le responsabilità politico- organizzative del suo partito che hanno portato al boicottaggio di qualche anno fa, dichiara apertamente di avere dei contatti serrati con l’Unione Europea e i paesi membri affinché possano aiutarlo nella realizzazione del suo progetto politico.

Per quanto riguarda le recente apertura dei contatti con la Cina da parte del governo in carica, da un lato espone la sua vicinanza alla decisione intrapresa da Kabila nell’aprire il dialogo con nuove realtà coma quella orientale, d’altro canto condanna le modalità non di certo trasparenti che hanno caratterizzato la conclusione degli accordi. E ribadisce la necessità, vitale per il Congo, di eleggere un governo che sia limpido nelle proprie azioni e responsabile nei confronti di tutti i cittadini facendosi portavoce dei bisogni collettivi piuttosto che degli interessi strumentali. Tuttavia, aggiunge, che il passo precedente rispetto alla messa in atto di una procedura elettiva democratica è l’organizzazione di un censimento su tutto il territorio nazionale per evitare il ricorso storico dei brogli elettorali.

Barbara Del Fallo

P.S. l’intervista sarà riportata integralmente nella tesi che sarà pubblicata entro la fine del 2008. Per chi volesse approfondire può chiedere notizie tramite la mail info@lumbelumbe.org

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Turisti per caso

Martedì 9 Settembre 2008

 

E’ domenica, il cielo abbastanza terso e decidiamo con Don Daniel di visitare il fiume Congo improvvisandoci un po’ “turisti per caso”. Questo fiume è tra i più grandi di tutta l’Africa ed è importante anche perché segna il confine tra la Repubblica Democratica del Congo e il Congo Brazaville. Infatti un  versante del fiume bagna Kinshasa e l’altro Brazaville facendo sì che queste due capitali siano le più vicine al mondo. Io, Annalisa, Alba, Don Daniel , Italo e Vincenzo insieme a Leopold ( il nostro amico seminarista che tenta di imparare l’italiano) siamo partiti per questa nuova esperienza. Durante il viaggio,  più o meno di un’ora,  io e Annalisa abbiamo cantato a squarciagola tirandoci su l’ira di tutti gli altri. Nel mio immaginario vedevo le sponde di un fiume affiancate da una piana di arbusti dai quali spuntavano qua e là donne e bambini, questa volta mi sono dovuta ricredere perché ciò che ho trovato non era nulla di tutto questo. Cete volte è proprio vero che la vita ti riserva sorprese inaspettate. Un piccolo villaggio turistico, il suo nome è “Mbudy- Nature”, un sentiero punteggiato qua e là da grandi cartelli con frasi di Kipling, qualche statua e poi un palott ( tipica capanna congolese) che funge da bar. Continuiamo a camminare lungo un sentiero incontaminato, dei ragazzi che ci chiedono di fare una foto hanno delle facce davvero felici, fanno pensare ai miei amici e alle  nostre giornate passate insieme a ridere e scherzare. Davanti a noi si apre uno scenario davvero meraviglioso ci troviamo dentro il letto del fiume, una conca rocciosa disseminata di pietre nere  molto grandi, camminiamo su un pavimento di pietra, levigata dalle acque, che luccica ai riflessi del sole.  Uomini e donne lavorano riempiendo sacchi di pietra dopo averla finemente triturata con scalpello e martello. Don Daniel da vero  cicerone ci mostra un po’ il circondario, tutto è davvero molto bello. Un po’ d’acqua scorre qua e la tra le pietre allargandosi ogni tanto a formare piccoli laghetti. Continuiamo la nostra escursione. L’” isola che non c’è”, questo abbiamo visitato domenica, un posto che sembrava essere dappertutto tranne che in Congo poiché non c’entra niente con tutto il resto ossia povertà, polvere, gas di scarico e baccano, ma lì solo tranquillità, pace e wow, non so come descrivere più la scena. C’era persino un trio da noi soprannominato “Jipsy King” che suonava canzoni congolesi del periodo post indipendenza e si avvertiva un sapore  patriottico e di libertà. Tutto era eccezionale, magnifico, magnifico, lo scorcio paesaggistico che si presentava davanti a noi era sorprendente, si vedeva sotto la “terrazza” una piccola spiaggetta con persone divertite che si facevano il bagno. C’era l’altalena, le sedie e i tavolini, un prato d’erba e un venticello dolce, in pratica l’ideale. Naturalmente la realtà si è ripresentata subito dura e giocherellona, un piccolo e innocuo incidente e un guasto alla macchina subito riparato hanno accompagnato il nostro viaggio di ritorno allietato sempre da canti stonati e mille risate.

Un pomeriggio durante il quale non è mancato anche un po’ di disagio interiore……. Qualcuno si è sentito in debito per questo dono inaspettato paragonato a tutto quello che abbiamo visto nei giorni precedenti.

Cristina Ceroli

 

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La ricchezza piu’ grande e’ il congolese

Martedì 9 Settembre 2008

 

Come ci era stato citato già da molti giorni da Italo e Don Daniel, oggi è stata una giornata importante. Alle ore dieci del mattino ci siamo recati nella zona centrale della città per incontrare il Nunzio Apostolico, l’Ambasciatore ufficiale del Vaticano a Kinshasa. Abbigliati con gli indumenti più consoni possibili ad un incontro di questo genere, ci siamo presentati all’appuntamento con una puntualità poco africana. Con il nostro impossibile taxi da quattordici posti, o meglio ufficiale da nove posti ed ufficioso da quattordici e talvolta anche di più, siamo giunti a destinazione. Una ”strombazzata” di clacson e l’importante cancello di ferro si è aperto davanti a noi. Un giardino immenso decorato da alberi e fiori di ogni genere e persino da una piscina, ci ha accolto in un ambiente molto vicino a quello di casa nostra. Ci hanno fatto accomodare in una stanza ampia e luminosa, sfarzosa ma allo stesso tempo semplice ed essenziale. I mobili, i quadri, le poltrone, le sculture, le tende … ogni cosa era al suo posto. Timidamente seduti su poltrone di una comodità che avevamo quasi dimenticato aspettavamo il padrone di casa. Ecco spuntare da una grande porta una figura minuta con un abbigliamento semplice ed al tempo stesso elegante. Ci saluta uno per uno, ci chiede chi siamo da dove veniamo e quale è il nostro compito qui. Ci tratta in modo familiare e molto cordiale. Consapevoli dell’unicità dell’incontro abbiamo cercato, con cautela e discrezione, di fargli le domande che avevamo preparato la sera prima. Ma lui sembrava non avere bisogno di domande, inizia a parlare della terra che lo ospita con competenza e professionalità. Ci racconta della sua esperienza di Nunzio iniziata sette anni prima quando la guerra civile devastava ancora il paese e iniziava quella profonda lacerazione degli animi umani oggi giunta al suo culmine. “La ricchezza più grande di questo paese è il Congolese” dice. “Bisogna formare l’uomo nella sua globalità, dargli fiducia e farlo sentire capace”. “Educare l’uomo? In che maniera? E quali sono gli interventi che noi “piccoli” volontari potremmo mettere in atto per gettare le basi di un’opera così grande?”, gli chiediamo. Le risposte sono brevi e precise. Ci dice che non sono le opere mastodontiche e troppo visibili ma microinterventi che vadano a soddisfare le esigenze della popolazione poco a poco. Bisogna fare piccole cose affinché possano essere gestite bene e mantenute funzionali. Non servono grandi ospedali, ma piccoli centri sanitari di prima accoglienza. Su questo siamo perfettamente d’accordo, riconosciamo nelle sue parole la nostra strada, la nostra “missione”. Ma quando osiamo chiedergli il perché l’Europa, e soprattutto l’Italia da una visione piuttosto approssimativa e semplicistica dell’Africa e nel caso specifico del Congo, lui non esita a darci un altro compito, forse molto più impegnativo e delicato: “In Europa non si parla molto d’Africa. Quando tornate a casa cercate, con tutto il vostro impegno di essere i testimoni di una realtà difficile a tratti molto triste, ma cercate soprattutto di raccontare un paese che ha tutte le carte in regola per poter rinascere.

Barbara del Fallo

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Il brivido dell’arresto

Martedì 9 Settembre 2008

Oggi abbiamo anche una esperienza molto forte, di quelle che si attaccano sul diario della memoria e non se ne vanno più via. Alle 9.30, io Annalisa, Enzo, Italo e Leopoldo (il seminarista) siamo partiti alla scoperta di una nuova realtà  di Kinshasa. La strada di accesso a questo enorme insediamento urbano tra fogne maleodoranti e cumuli di immondizia è un cimitero. Entrati per l’accesso principale a questo abbiamo iniziato a vedere ai bordi della strada stretta e sconnessa le prime abitazioni. Capanne fatte prevalentemente di terra e acqua color rosso africano. Un ambiente umido, squallido dove la povertà è talmente terribile che anche la persona più superficiale di questo mondo ne rimarrebbe scossa. Camminavamo tra gli sguardi incuriositi dei bambini e diffidenti dei più grandi. Abbiamo fatto anche visita ad una di quelle case e per 500 franche abbiamo avuto il privilegio di fare qualche foto (con disagio). Una casa nuda pareti color grigio scuro, una tenda sulla porta d’ingresso misera e sporca, un salottino color marrone scuro con un tavolino al centro. Ci hanno accolto una donna con un bambino, con molta probabilità ammalato poichè piangeva ininterrottamente, non sembrava lamentarsi di qualcosa da bambino, era un grido di disperazione quello. Attoniti e silenziosi dopo aver salutato e ringraziato la padrona di casa siamo andati via. Ancora qualche chilometro di percorso ed eccoci arrivati sull’estremità di una collina. All’orizzonte un panorama affascinante: tutta Kinshasa era davanti ai nostri occhi. Vedevamo case, palazzi, capanne, il verde intenso delle imponenti palme, il fiume Congo che separa la Repubblica Democratica del Congo dal Congo Brazaville. Su quella terrazza panoramica una pietosa discarica di rifiuti in mezzo alla quale uomini e bambini vesti di umili stracci cercavano il vitto giornaliero. Una scena inquietante uomini di una dignità scomposta  che cercavano tra i rifiuti umiliandosi davanti all’uomo bianco e non  riconoscendolo come suo fratello. Davanti a tale spettacolo, abbiamo chiesto al seminarista che ci accompagnava se potevamo scattare delle foto, ovviamente al panorama. Leopold ha acconsentito ed è stato proprio il suo consenso a farci vivere l’avventura della giornata. Due foto scattate ed ecco che arriva un uomo identificandosi come poliziotto. Inizialmente non gli abbiamo creduto, lo abbiamo quasi snobbato anche perché era vestito di abiti a dir poco normali. Fino a quando ci ha mostrato il suo tesserino che qualificava l’appartenenza alla “polizia” ci ha gentilmente mandato alla più vicina stazione di polizia che distava pochi metri. Stato di fermo per aver filmato in zona militare, questa l’accusa. Fregarci quantomeno una macchinetta o spillarci qualche soldo, questa la vera motivazione. Ci hanno fatto accomodare all’aperto, davanti al posto di polizia (ovvero una piccola e spoglia baracca che non aveva nemmeno le dimensioni di una casa). Dopo avere sostenuto a lungo di non aver filmato o scattato foto è stato necessario aprire la mediazione diplomatica. Primo una telefonata a Don Daniel, poi una don Eduard (responsabile del Seminario) il quale da quanto abbiamo capito li ha invitati ad andare nel primo pomeriggio al seminario probabilmente per riscuotere una modica cifra in cambio del nostro rilascio. Conclusa le trattative, siamo ripartiti per completare il nostro viaggio. Per tornare a “casa” il nostro cicerone ha deciso, con molta probabilità viste le disavventure  di cambiare tragitto. Siamo scesi dal promontorio percorrendo un lungo viale alberato abitato da fastose ville ed ambasciate di ogni genere. Macchine europee ci sorpassavano e gente di appartenenza sociale sicuramente più alta ci incrociavano ignorandoci. Va be, tutto sommato è stato un bel giorno. Mentre facevamo foto, nei giorni precedenti,  avevo previsto il fattaccio. Prima o poi ci arresteranno! E ci hanno arrestato.

Barbara del Fallo

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Io “Mutoka” a Mbuji Mayi

Giovedì 4 Settembre 2008

 

Come passa in fretta il tempo. Qui a Mbuji Mayi sembra ieri che eravamo arrivati in questo sconosciuto posto in qualche notte oscura e domani dobbiamo già ripartire. Ho appena comunicato la decisione al gruppo di poter programmare quest’ultima giornata a modo mio. Oggi voglio stare qui seduta sotto uno spoglio portico a guardare questo verde intenso, questi alberi grandi e rassicuranti, questi viottoli di terriccio umido a causa della pioggia, questa spoglia ed umile struttura che ci ha ospitato per dieci giorni, i colori delle mura accostati in maniera approssimativa, gli insetti che si posano numerosi sui nostri “residui” per cercare qualcosa con cui sfamarsi (e non sono gli unici!), le persone, soprattutto bambini che, affollano le strade che circondano il seminario dopo aver ricevuto notizia della nostra imminente partenza. Oggi voglio sentire tutto quello le mie orecchi abituate ad inutili ronzii non hanno mai udito: il canto degli uccellini, una fisarmonica che suona in una stanza non lontano da qui, i ragazzi che urlano e che si scatenano in una movimentata partita di pallone, il fruscio dell’erba che ospita di tanto in tanto qualche piccolo e innocente animaletto, le voci tenui dei seminaristi che cercano un continuo confronto con noi perfetti sconosciuti, anche il rumore di una chiave che girando apre una porta qui è limpido, chiaro, distinguibile. Oggi il mio olfatto vuole sentire l’odore dell’africa, un odore che per quanto l’abbia immaginato e aspettato per una vita intera è molto diversa da quello che pensavo. È talmente forte che già nella sua essenza denota tracce di povertà, miseria. Oggi voglio stare qui a godermi il sogno di una vita in tutta la sua interezza e la sua specialità. Oggi io, “mutoka”, voglio semplicemente entrare in simbiosi, in intimità con una terra che già mi appartiene da tempo. È questa sensazione sovrasta tutto ciò che mi gira intorno e si posa sul ramo più alto di un albero colmo di emozioni e di grandi speranze.

Barbara Del Fallo

 

 

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Non dimentichero’ mai quegli occhi

Giovedì 4 Settembre 2008

Io non conosco il suo nome: l’ho visto solo seduto lì.

Era su un letto con le gambe incrociate e le mani poggiate sulle ginocchia; stava fermo, immobile, con il sorriso spento, in silenzio: i suoi occhi però stavano parlando.

Nel reparto dell’ospedale di Miabi si accede attraverso una piccola porta e quando lo sguardo si posa sulla camerata, esso non si perde tra i letti e fra tutti i malati, esso va dritto verso ciò che è impossibile non vedere.

Non conosco il suo nome ma, quel bambino era lì seduto e vedendoci arrivare non ci ha sorriso come tutti gli altri, non ci ha chiamato, non si è mosso. Restava lì, accanto alla madre, mentre il dottore ci diceva: “ Elle est là, car peut-être elle a la SIDA!” (È qui perchè probabilmente ha l’AIDS).

D’improvviso un brivido lungo la schiena ed il tremore lacerante dell’impotenza hanno dato la spiegazione a quello sguardo.

In mezzo a tanta sofferenza sembra che si diventi quasi “indifferenti” alla morte ed alla malattia, ma quegli occhi mi hanno ricordato che non potrà mai essere così.

Quel bambino potrebbe restare lì, solo al mondo e niente cambierà il suo destino. Accettarlo è impensabile ma, è una di quelle tante storie che l’Africa ci offre per riflettere, riscoprire e non dimenticare il valore di quello che in ogni istante dovremmo assaporare: la vita.

Annalisa Spinelli

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La Fame

Giovedì 4 Settembre 2008


Oggi i miei occhi hanno visto la fame. Seduta davanti al seminario, ho sentito un rumore: era un frutto che scendeva da un albero. Un bambino di corsa raccoglie il frutto, non curandosi se maturo o non buono, lo morde con fame e subito lo passa agli altri bimbi: un morso a testa fino a quando non finisce.

In questo gesto ho visto la solidarietà e l’amore, la condivisione che hanno tra di loro.

I miei occhi pieni di lacrime, il mio cuore più triste che mai, per questa realtà dura dove la povertà è visibile al primo sguardo.

Questa è l’Africa. La rifiuti, poi ti prende il cuore e non vuoi andare più via.

Alba Carapello

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La Fabbrica di diamanti

Giovedì 4 Settembre 2008


Una lunga strada di terriccio rosso, all’orizzonte verdi palme che sembrano quasi tangere un cielo più vicino di quello che osserviamo a casa nostra, una folla di persone che passeggiano a destra e a manca senza levare lo sguardo quasi a non voler sbirciare quell’ambiente un po’ scomodo. E’ un posto magico quello per gli abitanti di Mbuji Mayi, è il luogo ospitante una delle più estese terre di scavo di diamanti. Prima ricchezza del paese, il Congo vanta il 60% di esportazione mondiale di un minerale assai raro e allo stesso tempo così prezioso. Ai bordi del viottolo malconcio e pieno di buche numerose squadre di lavoro composte da uomini e ragazzi (anche in tenera età) abbigliati di color arancione. La scelta della tinta si dice sia dovuta alla comunanza di colore con la terra che ogni giorno si apprestano a scavare. Tuttavia azzarderei nell’aggiungere che con molta probabilità l’opzione arancio sia dovuta al tentativo di mimetizzarsi con il luogo di lavoro. Ma qual è il luogo di lavoro per questa parte di congolesi? Li trovi lì attorniati a buche profonde circa 20 mt che aspettano il loro collega il quale nel frattempo si è calato nella cavità alla ricerca di una fortuna godibile non di certo individualmente. Questo avviene non solo di giorno ma anche di notte; un autentico modello di lavoro europeo nel cuore dell’Africa. MIBA, questo è il nome della più grande società che si occupa di scavo, taglio ed esportazione di diamanti. Attiva dal 1930, la gestione dell’azienda si basa sul sistema dell’autofinanziamento anche se parte delle azioni sono in mano a “generosi” imprenditori residenti in Belgio. Cinquemila sono i lavoratori che quotidianamente si recano al “polygone”, vale a dire il luogo di scavo più esteso. Che siano ignari o consapevoli delle attività speculative che girano intorno al mercato dei diamanti questo non tocca a noi giudicarlo. Tuttavia la sensazione che abbiamo avuto è stata quella che essi non hanno la necessaria consapevolezza che un bene così prezioso potrebbe un giorno risollevare le sorti di un paese abbandonato e povero. L’episodio che ci ha fatto giungere a tale conclusione, probabilmente errata perché non sta a noi giudicare, è stato il mio incontro con un bambino di circa 10 anni. Mi ha avvicinato con fare timoroso, ha tirato fuori dalla tasca un frammento di vetro che aveva le sembianze di un diamante e mi ha chiesto in cambio di quel dono che io gli scattassi una foto.

“Una foto in cambio di un “diamante”?!” mi sono chiesta. Ma qual è in questa terra il vero valore delle cose? Poi ho girato lo sguardo un po’ più in là. Un piccolo corteo che portava una bara verso la chiesa, si è tutto d’un colpo scomposto poiché incuriosito dalla nostra “bianca” presenza. Nessuno dei componenti si preoccupava più del solenne momento che stavano celebrando, al contrario ognuno di loro cercava un contatto, una parola col “mutaka” (uomo bianco).

In un paese dove la scelta tra la vita e la morte non fa alcuna differenza, ogni cosa ha il posto e il peso che trova.

Barbara del Fallo

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Questione di Meriti

Giovedì 4 Settembre 2008

Miabi, un villaggio di 70 mila abitanti che dista dalla nostra missione circa 30 Km. Per raggiungerlo un viaggio in fuori strada durato quasi tre ore lungo un percorso tortuoso e sconnesso. Il calore umido e asfissiante ha reso il viaggio ai limiti della sopportazione fisica per noi italiani “ viziati doc”. Tuttavia il morale abbastanza alto e lo spirito dell’avventura ci hanno permesso di sopportare e accettare anche questo. Breve visita nella casa natale dell’Abbè Daniel e poi un giro poco turistico ma molto coinvolgente nelle strutture scolastiche esistenti e in un ospedale locale. Era il primo giorno di scuola a Miabi, così come nel resto del Congo, ma a scuola non c’era nessuna traccia di alunni. “E’ la normalità” ci dice rassicurante Don Daniel. “ Nei villaggi, soprattutto, nessuno torna sui banchi di scuola il primo giorno”. E pensare che avevamo portato con noi una valigia colma di colori, penne, quaderni pronti a consegnarli agli scolari nel loro primo giorno di lezione. Ce li aspettavamo tutti lì, seduti non di certo dietro ad un banco come siamo abituati a vederli in Italia, ma quantomeno presenziare alla loro prima lezione dell’anno scolastico appena iniziato. Ed è proprio in questi momenti che ti accorgi che le aspettative in Africa si sciolgono come neve al sole, giorno dopo giorno. Non ci siamo arresi, la nostra valigia l’abbiamo lasciata lo stesso. Consegnandola ai docenti che aspettavano la nostra visita, ancora una volta possiamo gridare “missione compiuta!”. La struttura ospedaliera invece è una delle migliori che abbiamo avuto modo di visitare durante il nostro breve soggiorno. Composta da pronto soccorso, accettazione, sale operatorie, reparti, tuttavia mancava di malati. A causa delle rette troppo onerose imposte agli utenti anche per piccoli disturbi, essi preferiscono curarsi a casa e disertare luoghi di questo genere rari per composizione e funzionalità. Sulla strada del ritorno abbiamo stabilito di fare una breve visita alla parrocchia del nostro accompagnatore Daniel. Contavamo di salutare gli abitanti del villaggio in maniera molto informale e anche abbastanza celere poiché il viaggio di ritorno, lungo e faticoso, era l’unica cosa della quale ci stavamo preoccupando. Ma arrivati lì, i nostri amici di Miabi ci hanno dato una vera lezione di vita. Avevano allestito per noi un grazioso salotto all’aperto, sotto un grande albero, dove ci hanno fatto immediatamente accomodare. Dopo alcuni  convenevoli è iniziato lo spettacolo. Canti, balli, suoni, ringraziamenti di ogni tipo ci hanno coinvolti in una splendida giornata di primo “inverno africano”. Le persone che si radunavano attorno a noi erano sempre più numerose e incuriosite dalla nostra presenza. Al termine dei festeggiamenti, su un palcoscenico calcato da personaggi veri, allegri e colmi di gratitudine, è arrivato il momento dei doni: un capretto, una gallina, un coniglio, pomodori, verdure, riso, olio e persino una zappa. Eravamo senza parole, il nostro silenzio era spezzato solo da un fiato di certa inadeguatezza per i doni che stavamo ricevendo. All’unisono avevamo una sola cosa che ci girava per la testa: “cosa abbiamo fatto per meritare tutto questo?”. Ne abbiamo discusso a lungo la sera stessa in seminario. La fiamma della candela che illuminava questa ingarbugliata e coinvolgente discussione animava la luce di una speranza che ognuno di noi covava in sé: aver lasciato una piccola goccia di fratellanza in cambio di quell’amore incondizionato che ricorderemo per il resto dei nostri giorni.

Barbara del Fallo

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